Se la giustizia è lenta la colpa è dell’avvocatura. Parola di The European House Ambrosetti, che nel proprio rapporto sulla Giustizia se la “prende” con i cittadini che decidono di non accettare le sentenze di primo grado, impugnando le sentenze sfavorevoli e facendo ricorso in Appello e per Cassazione. Un “cattivo” comportamento, sebbene consentito dalla legge e garantito come diritto, del quale gli avvocati, in qualche modo, sarebbero complici. Tant’è che a pagina 18 del rapporto gli esperti lo dicono chiaramente: per risolvere il problema dei tempi elefantiaci dei processi «è necessario limitare ulteriormente fenomeni di ricorso opportunistico alla giustizia da parte del privato teso a un “tentato guadagno” per il tramite del sistema giudiziario, fenomeno che a volte può anche godere di una spinta da parte del sistema di avvocatura che può trovare utile non disincentivare tale atteggiamento».

Un po’ quanto già sosteneva il consigliere del Csm Piercamillo Davigo, allorquando teorizzava che a rallentare i processi fossero le tecniche dilatorie degli avvocati, intenzionati a raggiungere la prescrizione. Una teoria strampalata, che non rispecchia quanto accade nel mondo reale. E a spiegarlo sono proprio gli avvocati. Che a dispetto di quanto si legge nel report, non hanno i vantaggi descritti nel rallentare i processi. L’equivoco di fondo, secondo Antonio De Notaristefani, presidente dell’Unione nazionale camere civili, è che gli avvocati non hanno il dovere né il diritto di scoraggiare i cittadini dal fare causa. «Abbiamo il dovere di farlo solo per le cause inappropriate. Ma si sta introducendo di soppiatto il concetto che chi fa causa è un nemico della società, perché intasa la Giustizia. Non è così: chi fa causa fa valere un diritto che è riconosciuto dalla Costituzione, per esercitare il quale paga le tasse. Quindi è un diritto non solo in astratto, ma anche in concreto, perché ne sopporta i costi attraverso la contribuzione fiscale», spiega De Notaristefani.

Dal rapporto, però, l’idea emerge chiaramente: se una sentenza di primo grado è sfavorevole, fare appello è un tentativo di perdere tempo e intasare la Giustizia. Un’idea che non convince il presidente dell’Uncc per un semplice motivo: non esistono più i clienti che pagano a prescindere, si paga in base al risultato. «Se non c’è risultato, non c’è pagamento. Forse è questa la grossa pecca del rapporto: si registra un fenomeno sulla base dei dati forniti dal ministero, stando ai quali circa il 50 per cento degli appelli o dei ricorsi per Cassazione vengono respinti. Intanto i due fenomeni non dovrebbero essere equiparati spiega -, in quanto la maggior parte dei ricorsi per Cassazione vengono respinti per ragioni di carattere formale, non sostanziale. Quindi non c’entra la ragione, ma il modo in cui i ricorsi vengono scritti». In quanto al numero eccessivo di appelli, afferma, il dato avrebbe meritato una maggiore riflessione: oggi, infatti, con la liberalizzazione dei compensi, i grandi committenti fanno appello a costo quasi zero. Quindi, più che atteggiamenti opportunistici - al netto delle “pecore nere” - il vero problema è che «in Italia la Giustizia costa troppo poco per i ricchi e troppo per i poveri. Per fare un giudizio in appello, oggi, un impiegato spende 30mila euro. Ovvero un anno di stipendio. Quindi probabilmente sarà costretto ad accettare una sentenza magari ingiusta perché non può permettersi di fare appello - continue De Notaristefani -. Per quella stessa causa, se la controparte è una grande banca o una grande compagnia di assicurazione, spende magari mille euro. Quindi può appellare tutte le sentenze: in ogni caso avrà vantaggi».

Il problema, dunque, è una Giustizia iniqua ed è questa la vera differenza con gli altri Paesi europei: il costo di accesso alla stessa. «Volete ridurre il numero delle cause? Perfetto, rendete vincolanti le tariffe professionali e consentite la deroga soltanto per i consumatori oppure per chi ha un Isee inferiore ad un certo valore», insiste De Notaristefani. Il vero problema, dunque, non è il numero di appelli respinti, ma se l’accesso al giudizio di secondo grado è garantito in maniera equo per tutti. «È pericolosissima, ad esempio, la proposta avanzata anche da Carlo Cottarelli di restringere l’accesso al giudizio di impugnazione sulla base del censo. È una cosa incivile, che non dovrebbe mai essere consentita», conclude.