Si è detto e ridetto (e mai abbastanza) che con Tina Lagostena Bassi si è smesso di fare il processo alla donna nei processi per stupro. O almeno si è svelato il trucco. Da allora infatti sono passati 44 anni, e dell’avvocata della «donna Fiorella» ne avremmo ancora bisogno. Poiché la violenza è ancora un fatto. Così come è un fatto che le donne si tengano lontane dalle aule di tribunale, per non finire sul banco degli imputati. Chi lo dice? Tra gli altri l’avvocato Iacopo Benevieri nel suo libro “Cosa indossavi? Le parole nei processi penali per violenza di genere” (Tab Edizioni). E lo dice nel titolo: non si predicano le manette, si predica il linguaggio. La parola dentro quella «“vicenda linguistica” per antonomasia che è il processo penale». Per capirne il potere si può partire dai numeri, o dalle false credenze. I miti, dice Benevieri, che sono alla radice degli stereotipi odierni: narrazioni codificate fin dall’antichità che rafforzano la rappresentazione della donna attraverso categorie prevalentemente maschili. La letteratura ne è piena, ma lo sono anche le statistiche e i bilanci annuali. «Il 35 per cento delle separazioni giudiziali e dei procedimenti sui minorenni contiene violenza, ma essa viene negata nelle aule giudiziarie», diceva il rapporto della Commissione Femminicidio al Senato lo scorso maggio. Il fenomeno indagato è quello della vittimizzazione secondaria, che in pratica vuol dire colpire una donna due volte: la seconda con la mano delle istituzioni. Benevieri la spiega così: «È certamente noto come con il termine “vittimizzazione secondaria” si intenda infatti quel dannoso fenomeno derivante dalla sottoposizione della vittima di reati violenti a procedure medico-legali, burocratiche, giuridiche, amministrative che, in varie forme, la inducono, la obbligano, la sollecitano a rivivere, ricordare, rendere presente a sé stessa la violenza subita, provocandole nuovi e ulteriori traumi». E la riassume così: «Qualsiasi asimmetria sociale si riverbera in tribunale. Dunque l’aula di udienza può essere il proscenio ove si riproducono le medesime asimmetrie presenti fuori di essa. Tra queste asimmetrie, c’è anche quella di genere». Succede in Italia, e succede sia in sede civile che in sede penale. Sia quando la violenza è ridotta o negata, sia quando si fanno le domande sbagliate. «La Corte considera che la lingua e gli argomenti utilizzati dalla Corte d’appello veicolino preconcetti sul ruolo della donna che esistono nella società italiana e che possono ostacolare l’effettiva tutela dei diritti delle vittime di violenza contro le donne, nonostante un quadro legislativo soddisfacente», scrivono i giudici della Cedu quando condannano l’Italia nel 2021.Quei preconcetti il nostro autore li prende e li cataloga in 12 false credenze. Convinzioni stereotipate sullo stupro, che «fanno riecheggiare la propria dittatura anche attraverso il linguaggio». E che si riassumono in un assioma: «molte violenze sessuali sarebbero semplicemente “incidenti” dovuti a “malintesi”, spesso causati dal comportamento della donna». La donna che insomma, se l’è cercata. Un “mito” ancora vivo che «può acquisire portata normativa e giuridica». Benevieri ne ha trovato traccia in alcune trascrizioni forensi. Senza cercare nei grossi inciampi della giustizia sul tema, ma scovando il «micro-potere» che si annida nelle sottigliezze. «Dietro un uso inconsapevole della parola - dice - si nasconde il rischio di utilizzarla come strumento di dominio, anche di genere, anziché come strumento di garanzia, resuscitando così mai sopite culture inquisitorie». Può essere il tono della voce, una certa gestione delle pause, il modo in cui è formulata una domanda, o l’uso di un linguaggio ostico per imbarazzare il teste. Può essere anche una sillaba messa al posto sbagliato. Il punto è che attraverso il linguaggio si veicola un convincimento: che la vittima sia responsabile del fatto subito. O che non si sia “difesa” abbastanza. Qualche volta - troppo spesso - se ne convince la vittima stessa, e allora decide di non denunciare. Soprattutto se lo stupro avviene dentro la coppia. E nonostante i dati statistici dicano che il contesto familiare è quello in cui si consumano maggiormente i “reati spia” della violenza di genere: dagli atti persecutori ai maltrattamenti. «La natura non sempre esplicita dell’efficacia condizionante e stereotipizzante propria di certe strategie comunicative fin troppo spesso sfugge all’attenzione di avvocati e magistrati. Ecco il motivo per cui si ritiene ormai non più rinviabile la necessità che tutti gli operatori che partecipano alla celebrazione dell’udienza penale siano formati anche con adeguate competenze linguistiche e comunicative », spiega l’avvocato Benevieri. Che vede nella formazione un possibile argine. E che, come esperto della materia, ha edificato intorno al tema una certa idea foucaultiana delle dinamiche in gioco. Garanzia e dominio sono i due poli. E il trucco è quello di sempre: si denigra “l’accusatrice” per depotenziare l’accusa. “Rituali di degradazione”, dice l’autore, inseriti dentro quel rito “teatrale” che è il processo penale, con tanto di attori e regista. «Il codice di procedura penale regola il dibattimento inteso anche come evento linguistico e, pertanto, disciplina per esempio il modo di formulazione delle domande. Proprio nella consapevolezza della dimensione della parola come potere, che può incidere direttamente nella formazione della prova dichiarativa resa in aula, prescrive infatti che le domande non possano essere nocive, cioè formulate in modo tale da nuocere alla sincerità delle risposte». Domande “nocive”, vietate sempre dal nostro ordinamento, e domande “suggestive”, consentite soltanto nel “controesame”. Un esempio? Benevieri ne pesca uno dalla trascrizione di un processo penale nei confronti di un imputato per violenza sessuale: « L’imputato... Le piaceva, no? ». Che non è una vera richiesta, ma il tentativo di ottenere «una mera ratifica dell’informazione già contenuta nella domanda». E già tramandata coi miti, da Aracne ad oggi.