«Siamo solo 2 Oss con turni 7.00/ 15.00 e 15.00/ 21.30, in estate il pomeriggio il turno è 15.00/ 22.00. Niente giornata libera, sette giorni su sette! Aiutatemi!». «Ci sono 14 anziani, circa la metà non autosufficienti» ; «Ma è legale lavorare 8/ 9 giorni di fila senza riposo e fare la notte dalle 22 alle 6 di sabato e di domenica consecutivi?». Tante sono le denunce anonime che compaiono sul forum dedicato all’operatore socio sanitario ( Oss) da parte di coloro che lavorano nelle case famiglie per anziani. Turni massacranti, anziani che dovrebbero, per legge, essere autosufficienti, ma non lo sono. Presenza di operatori, soprattutto stranieri, che soggiornano stabilmente nella casa famiglia dove lavorano e di fatto non staccano mai. Il risultato è che non di rado gli operatori cadono nel “burnout”, detta anche “sindrome dell’esaurimento da lavoro”, e a subirne le conseguenze sono poi soprattutto gli anziani. Non è un caso che negli annunci di lavoro ci sia una continua richiesta di Oss: perché chi ci lavora è destinato a durare poco.

Si tratta di un dramma poco conosciuto, che viene allo scoperto solamente nei casi di cronaca, quando gli operatori vengono denunciati per maltrattamento. In generale, per chi lavora su turni nelle strutture sanitarie, organizzare la propria vita non è facile: non esistono sabati e domeniche, né festività; a questo si aggiunge anche una turnazione poco attenta a ridurre, come invece previsto dalla legge, il più possibile il ricorso al lavoro notturno e ai cambi improvvisi. Diverse sono le ragioni di queste criticità organizzative, per lo più dettate dalla scelta di prediligere il risparmio sull’assunzione di nuovo personale e la riduzione dei riposi compensativi in base ai turni notturni svolti. Senza dimenticare poi l’affermarsi negli Oss, anche di giovane età, dei problemi alle ossa dovuti dallo sforzo quotidiano per il sollevamento dei degenti. Tutto questo, però, quando si tratta di micro strutture private come le casa famiglia per anziani, la situazione si complica ancora di più. Questo approfondimento non a caso si trova sulla pagina “lettere dal carcere” de Il Dubbio: le residenze per anziani rientrano nel tema della privazione della libertà. Tant’è vero che la sovrapposizione del tema è stata la base della scelta legislativa, che ha portato ad inserire tra le competenze della figura del “Garante Nazionale dei Diritti delle persone detenute o private della libertà personale” anche quelle relative a strutture residenziali di cura e di assistenza, che ospitino anziani interdetti o inabilitati secondo le norme del codice civile. La necessità di avere un’autorità come il Garante viene confermata dai non infrequenti casi di cronaca nera, nei quali emergono dinamiche relazionali tra gli operatori e gli ospiti, nonché abusi e maltrattamenti, non dissimili da quelle che si verificano negli istituti penitenziari.

LE CASE FAMIGLIA PER ANZIANI SULLA CARTA

Le case famiglia sono delle comunità residenziali di tipo familiare. I requisiti di tali strutture sono contenuti nel decreto ministeriale del 21 maggio 2001 n. 308, emanato in legge n. 328 del 8 novembre 2000 ( art. 11). Sono cioè delle normali abitazioni in cui operatori specializzati coordinano le attività e la vita delle persone, che ne fanno parte e che collaborano nella gestione della casa. Generalmente, gli ospiti delle case famiglia sono bambini e adolescenti che non possono vivere con le loro famiglie. Tuttavia, da alcuni anni a questa parte diverse case famiglia sono orientate verso l’aiuto a persone anziane sole che, per i più svariati motivi, hanno difficoltà a vivere nelle proprie abitazioni, oppure che vivono in case non adeguate alle loro necessità. Le case famiglia cercano di offrire all’ospite un ambiente simile a quello familiare, facendo sentire a proprio agio gli ospiti e rispondendo al meglio alle loro esigenze.

A differenza di altre strutture affini, le case famiglia sono in grado di accogliere poche persone. Sempre a confronto con altre strutture, un loro limite è la mancanza di un’area medica, con medici disponibili a tutte le ore al suo interno. Le case famiglia dispongono, infatti, solo di un ambulatorio, con personale addetto al primo soccorso. Ad oggi, almeno in teoria, queste strutture rimangono la soluzione migliore per ridurre al massimo nell’anziano ospite il distacco dalla sua famiglia; sempre se non sussistono gravi patologie, per le quali sono richieste cure specifiche e che siano autosufficienti.

LA REALTÀ DENUNCIATA DALLA CGIL

Crescono come funghi, principalmente nelle periferie e lontano dai servizi, spazi per l’intimità ridotti al minimo. Un quadro desolante dipinto dal dossier curato dallo Spi Cgil che da un anno si è dotato di un Osservatorio sulle residenze per gli anziani in Italia, allo scopo di monitorare le principali caratteristiche dell’evoluzione dell’offerta alle famiglie. Cosa denuncia? Negli ultimi tempi il sindacato ha osservato come molteplici soggetti privati e gruppi di franchising propongano la possibilità di aprire tipologie di strutture residenziali di tipo famigliare o a carattere comunitario, come casa famiglia/ casa albergo per le quali sono richiesti requisiti strutturali, assistenziali e organizzativi più facilmente raggiungibili anche con un investimento economico iniziale contenuto. Infatti tali strutture residenziali, in base alla normativa vigente, possono ospitare nel caso delle casa famiglia al massimo sei persone e, nel caso di strutture a carattere comunitario, non più di venti.

Le case famiglia o ' comunità di tipo familiare, e i gruppi appartamento con funzioni di accoglienza e bassa intensità assistenziale”, rientrano tutti tra quelle strutture per le quali è prevista sola la Dia ( dichiarazione inizio attività) e non sono soggette all’obbligo di preventiva autorizzazione al funzionainfatti mento, che invece è previsto per le strutture a carattere comunitario ( da 7 a 20 posti letto). Questo tipo di affiliazione commerciale permette anche a persone senza competenze e conoscenza del settore dell’assistenza sociosanitaria agli anziani di aprire e gestire una struttura residenziale. La Cgil sottolinea come l’evidenza empirica dimostra, configurandosi nella maggior parte dei casi queste iniziative come attività imprenditoriali a basso costo, che in diversi casi da 4 a 6 anziani possono venire ammassati in appartamenti di 80- 100 metri quadrati, con spazi per l’intimità delle singole persone ridotti al minimo. Il sindacato ci va pesante e denuncia come l’esperienza di vita degli ospiti in diversi casi sia più simile alla sopravvivenza che non ad una esistenza dignitosa, e come le tariffe siano praticamente fuori controllo. Talvolta questi appartamenti sono ubicati in zone periferiche delle città, poco servite dai servizi pubblici. Al contrario, il dossier evidenzia come la programmazione sociale e urbanistica del Comune potrebbe prevedere l’insediamento di queste case famiglie in zone della città dotate di determinati requisiti. Infine, queste iniziative quasi sempre non vengono intercettate dalla programmazione sociale dei Comuni e dalla programmazione socio- sanitaria delle Regioni e delle Aziende sanitarie.

La società invecchia sempre di più e aumenta il rischio di sfruttamento di chi vi lavora per necessità, con la conseguenza degli abusi e del malessere sia degli ospiti che degli operatori stessi. Senza un controllo ed un investimento diverso, le conseguenze sociali sarebbero assai pesanti, tenuto conto anche della recente evoluzione dell’offerta privata di posti letto per anziani. Basti pensare che solo nel triennio 2014- 2016, in base ai dati rilasciati dal ministero della Salute, su 6.187 controlli effettuati presso strutture residenziali per anziani, pubbliche e private, sono state rilevate 1.877 “non conformità”, pari al 28% dei controlli eseguiti. In particolare, tra le violazioni più frequenti si segnalano i maltrattamenti, l’esercizio abusivo della professione sanitaria ( medico e infermieristica), l’abbandono d’incapace, le inadeguatezze strutturali ed assistenziali. Le case famiglia per anziani - per fortuna non tutte - sfuggono dai controlli.