Intercettato in carcere Massimo Carminati, che secondo la procura di Roma è la versione romanesca di Totò Riina, si lascia andare a uan confidenza sbalorditiva: «La vera Cupola a Roma sono i costruttori». Sull’Espresso, uno dei giornalisti più addentro nelle cose della Cosa nostra capitolina commenta: «La bomba er Cecato la sgancia così. Senza aggiungere nulla. Senza dare una spiegazione all’interlocutore che però comprende il messaggio». Però se le parole del temibile sono ' una bomba' conviene evitare i bar della Capitale, pena il ritrovarsi nell’inferno di Mosul: che a Roma i padroni siano i palazzinari lo sanno e lo ripetono proprio tutti. Da decine d’anni.

L’articolo in questione, uscito nel settembre scorso ma del tutto omogeneo a un migliaio d’altri usciti su quasi tutte le testate italiane, è un florilegio. Carminati è in cella con altre tre detenuti e stando in regime di 41bis non vede nessun altro. Sempre in virtù del medesimo 41bis, l’articolo che dispensa il carcere duro per i mafiosi, capita che in cella il Pirata si ritrovi appunto con mafiosi, tra cui Giulio Caporrimo, considerato intimo del super latitante Matteo Messina Danaro. Capita anche, per quanto incredibile sembri, che ci parli. Commento del settimanale: «Ecco come la mafia siciliana ritorna prepotente e silenziosa in questa storia».

Di perle del genere, a spulciare i media italiani se ne rintracciano senza sforzo a tonnellate. Fanno notizia, anche quando la notizia latita o si riduce a un’opinione. Fanno cultura di massa, mentalità diffusa, e siccome 99 volte su 100 dietro quelle notizie ci sono le procure finisce che a dettare il senso comune sono appunto le procure. Fanno anche carriera: per essere promossi a principi del giornalismo niente, neppure una bella sparata contro i politici magnaccioni, vale una minaccia mafiosa, un sguardo di sbieco del boss di turno. Se resuscitasse, Leonardo Sciascia volgerebbe oggi i suoi strali non più contro i palazzi di giustizia ma contro le redazioni, che del resto ne sono spesso pure dependences.

Roberto Saviano ha aperto la strada e indicato la rotta. In mez- zo allo stuolo di principi e duchesse è senza discussioni il sovrano. Cosa abbia scritto nel celebre Gomorra che non fosse già noto è un mistero. L’apporto creativo e fantasioso in quello storico titolo è conclamato: si chiama romanzo proprio perché non perde tempo a separare i fatti dall’immaginazione. Ma se ai boss non è piaciuto deve per forza trattarsi di capolavoro: tanto che qualche anno fa di Saviano, con all’attivo due titoli, è uscita l’edizione di lusso delle opere complete. Come usa Con Tolstoj o Gadda.

Il secondo titolo in questione, al quale si è aggiunto nel frattempo un terzo e bisognerà sfornare al più presto l’edizione aggiornata dell’opera omnia era un’inchiesta sullo spaccio di cocaina, “ZeroZeroZero”: basta spulciare i ringraziamenti finali per scoprire che le fonti dell’inchiesta sono essenzialmente le inchieste della magistratura. Del resto anche in quel caso si trattava di un romanzo...

L’esempio più lampante ed eloquente resta tuttavia ancora quello dell’inchiesta Mafia capitale. La procura ipotizza l’associazione mafiosa, ma è ben consapevole di muoversi su un terreno friabile, tanto che nelle ordinanze pagine e pagine sono devolute a giustificare la pesante accusa a carico di un gruppo che non ammazza, non ferisce, non picchia ed è discutibile persino che minacci. A giudicare a fondatezza del capo d’accusa saranno ovviamente i tre gradi giudizio, ma il dubbio è lecito e dovrebbe anzi essere obbligato.

Qualche giornalista infatti dubita, ma il circolo è ristretto e sembra essere precluso, con pochissime eccezioni, ai cronisti di giudiziaria. I quali si sono invece procurati in massa il crampo dello scrivano per spiegare senza pensarci su due volte che il capo d’accusa è in realtà solare e solidamente giustificato. Neppure quando una sentenza ha stabilito che nell’unico municipio di Roma sciolto per mafia, quello di Ostia, la mafia non c’era.

Non è solo questione di opportunismo e asservimento alle procure. Quando si parla di mafia e affini entra in ballo l’impegno civile. Revocare in dubbio le conclusioni dei pm che indagano sulla criminalità organizzata significa farsene complici, e chi mai potrebbe guardarsi nello specchio sapendo di aver dato una mano a Matteo Messina Denaro o Massimo Carminati?

Non è forse l’etica civile a imporre per prima di prendere per oro colato qualsiasi cosa i guerrieri dell’antimafia partoriscano, scemenze incluse?

Il rovello non si pone solo nei casi clamorosi, come il processone romano. La logica discende sino a quelli microscopici.