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giustizialismo
Stamane, presso il Salone Internazionale del Libro a Torino, si terrà un dibattito dal titolo “Giustizia e Informazione: un confronto con Il Dubbio, il giornale dell’Avvocatura - L’abuso del diritto di cronaca tra strumentalizzazione e spettacolarizzazione”, organizzato dal Consiglio Nazionale Forense e dalla Fondazione dell’Avvocatura italiana. Il confronto avviene proprio mentre il Governo dovrà esprimersi sui pareri delle commissioni parlamentari in merito al recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza, la quale, come ha ricordato il responsabile Giustizia di Azione, l’onorevole Enrico Costa, «è affermata in Costituzione ma deve esserlo anche nella vita quotidiana del Tribunale. Troppo spesso ci sono persone indagate che vengono sbattute sui giornali a seguito di conferenza stampa degli inquirenti o a causa della divulgazione di video delle forze dell’ordine». Era il 1983 e i militari, per trasferire Enzo Tortora, accusato ingiustamente di associazione camorristica, nel carcere di Regina Coeli, aspettarono che fosse mattina presto per garantire ai fotografi la prima fila davanti all’Hotel Plaza e riprendere il giornalista con i ceppi ai polsi. Da allora è stato un susseguirsi di processi mediatici, che sempre più hanno invaso quella sfera che dovrebbe rimanere circoscritta nelle aule giudiziarie o almeno dovrebbe essere trattata sulla stampa spiegando i termini della questione, non imbastendo un criminal show. Salvatore Ferraro, Giovanni Scattone, Raffaele Sollecito, Alberto Stasi, Annamaria Franzoni, la famiglia Ciontoli, Cosima Serrano, Sabrina Misseri, Antonio Logli, Massimo Bossetti, il generale Mario Mori, Mario Oliverio, Clemente Mastella, Nunzia De Girolamo: sono solo alcuni dei nomi più noti di persone che hanno subìto nel nostro Paese i più morbosi processi mediatici. Non importa se tanti di loro siano stato poi condannati: nel momento in cui erano presunti non colpevoli sono stati attenzionati da un voyeurismo giudiziario senza precedenti, che ha costruito mostri da prima pagina, rovinando carriere e relazioni personali. Il fenomeno del processo mediatico è complesso e, come scrive il professore avvocato Vittorio Manes in un contributo dal titolo “La ’vittima’ del ’processo mediatico’: misure di carattere rimediale”, alla base «si pone il conflitto, difficilmente superabile, tra diritti contrapposti: il diritto di cronaca giudiziaria, da un lato, e dall’altro i diversi diritti che fanno capo a chi lo subisce (vita privata, riservatezza, presunzione di innocenza), oltre a più generali istanze di imparzialità del giudizio». Molti, infatti, sono gli studiosi che da anni analizzano la questione e cercano delle soluzioni per bilanciare tutte le esigenze in gioco. Il professore avvocato Ennio Amodio, in un documento pubblicato dalle Camere Penali, descrive una situazione allarmante: «L’onda impetuosa dei media si abbatte sul processo penale e ne deforma lo scenario fino a renderlo irriconoscibile persino a chi, come difensore, ha vissuto in prima persona le vicende giudiziarie che la stampa e la televisione scelgono di raccontare»; mentre per il professor Giorgio Spangher «gli indagati e gli imputati sono morti che camminano perché su di loro si posa lo stigma sociale scaturito dal racconto che il pubblico ministero costruisce intorno a loro e che la stampa replica all’infinito». Non importa se poi verrai assolto: quello che rimarrà nella memoria collettiva sarà la «verità storicizzata costruita dal pm nella fase delle indagini preliminari» quando l’inchiesta riceve tutte le attenzioni giornalistiche. Peccato però che giornali e tv disertano quasi sempre le aule di tribunale quando si celebra il processo, unico momento in cui nel contraddittorio si forma la prova. A delineare quasi scientificamente le differenze tra processo penale e processo mediatico ci ha pensato il professor Glauco Giostra in un elaborato dal titolo “Processo penale e mass media”: «Il processo giurisdizionale ha un luogo deputato - spiega - il processo mediatico nessun luogo; l’uno ha un itinerario scandito, l’altro nessun ordine; l’uno un tempo (finisce con il giudicato), l’altro nessun tempo; l’uno è celebrato da un organo professionalmente attrezzato, l’altro può essere “officiato” da chiunque. Ma vi sono anche differenze meno evidenti e più profonde. Il processo giurisdizionale seleziona i dati su cui fondare la decisione; il processo mediatico raccoglie in modo bulimico ogni conoscenza che arrivi ad un microfono o ad una telecamera: non ci sono testi falsi, non ci sono domande suggestive, tutto può essere utilizzato per maturare un convincimento. Il primo, intramato di regole di esclusione, è un ecosistema chiuso; il secondo invece è aperto, conoscendo soltanto regole d’inclusione; la logica dell’uno è una logica accusatoria, quella dell’altro, inquisitoria». Ma tutto questo può inficiare il giudizio della Corte? Per la Cassazione non esiste questo pericolo: “Le campagne stampa quantunque astiose, accese e martellanti o le pressioni dell’opinione pubblica non sono di per sé idonee a condizionare il giudice, abituato ad essere oggetto di attenzione e critica senza che sia menomata la sua indipendenza” (Cass. Sez. V, 12.5.2015, Fiesoli). Si tratta dello stereotipo del giudice con la corazza: ma è davvero così? La diffusione al di fuori del processo degli atti di indagine, coperti da segreto o non pubblicabili, costituisce certamente un ostacolo all’esercizio del diritto di difesa a causa del forte pregiudizio che arreca all’indipendenza psicologica del giudice. Quest’ultimo dovrebbe conoscere il materiale probatorio solo durante la sua formazione nella dialettica tra le parti. Qualche giurista sostiene che in realtà i giudici sono strutturati in modo da non farsi condizionare, tuttavia una volta un famoso avvocato, durante una cena, partecipò ai commensali che un magistrato gli aveva confessato che in realtà si lasciano in parte influenzare, soprattutto quando sono tante e ben mediatizzate le parti civili. E qui si dovrebbe aprire una parentesi - ma ora non c’è abbastanza spazio - sull’apporto che le parti civili, e i loro avvocati, spesso danno alla costruzione del processo parallelo sulla stampa. Nondimeno cosa accade invece per la giuria popolare, molto spesso composta da persone prive delle adeguate conoscenze giuridiche e facilmente influenzabili? Se la risposta è che in fin dei conti decidono i giudici togati, allora discutiamo seriamente affinché vengano soppresse. Se, invece, il loro giudizio ha un peso allora pensiamo a come metterli al riparo dall’influenza della stampa colpevolista. Ad esempio a Roma, nel processo per la morte del vice brigadiere Mario Cerciello Rega, la presidente della Corte decise che i video del dibattimento non sarebbero potuti «essere pubblicati e mandati in onda prima della sentenza di primo grado per non minare la serenità di giudizio di coloro che» sarebbero andati ad esprimersi. Insomma, la matassa è complicata ma da qualche parte bisogna partire per districarla: sicuramente accanto a nuove norme servirebbe una inversione di tendenza sul piano culturale che investa tutti - magistrati, giornalisti e società civile.