Di Andrea Orlando non si può dire che sia un impulsivo. Anzi, più di una volta il guardasigilli si è trovato a fare da mediatore dopo improvvise fiammate tra il premier e i magistrati. Ma al riuscito convegno organizzato dal Foglio all’Ara pacis, “Ai confini della giustizia”, il ministro cede alla tentazione di rispondere al Csm con sarcasmo. Al dibattito pomeridiano Orlando arriva col sorriso sulle labbra e una battuta per i cronisti: «Sono venuto a rispondere all’ultimatum». Si riferisce alla delibera approvata pochi minuti prima a Palazzo dei Marescialli sul deficit di personale negli uffici giudiziari. Segnale anticipato ieri da Repubblica, che l’aveva appunto presentato come un ultimatum del Consiglio. Il pressing lanciato dalle toghe fa da sfondo al dibattito, a cui partecipano altre quattro figure centrali del sistema giustizia: Raffaele Cantone, Giovanni Canzio, Giovanni Legnini e Armando Spataro. Il ministro risponde: «Possibile che il Csm si accorga dell’emergenza personale solo dopo che un autorevole procuratore come Spataro ha sollevato la questione in una lettera al sottoscritto? È come se persino nell’organo di autogoverno prevalesse a volte l’urgenza di rassicurare la base della magistratura. Anziché seguire delle priorità si insegue la cronaca». Non è la sola stilettata che Orlando riserva alle toghe. L’altra riguarda le correnti: «Altro che strapotere. Mi preoccupa piuttosto la loro debolezza. Anche l’associazionismo giudiziario rischia di scivolare nella crisi dei partiti: c’è una conflittualità esasperata tra i vari gruppi, tutti tesi alla ricerca del consenso. E questo si riflette anche nel funzionamento del Csm». In che modo? Il guardasigilli fa un esempio concreto: «Si dà priorità all’assegnazione degli incarichi nelle sedi più grandi, quelle sulle quali si costruisce appunto la via del consenso, che in genere prevede un giro all’Anm e l’approdo finale al Consiglio superiore». È anche per questo che alcuni dei Tribunali con il maggior arretrato e la più alta percentuale di prescrizioni «sono in difficoltà: il vertice resta per troppo tempo vacante». Altre volte i capi degli uffici sono stati scelti male: «Non parlo necessariamente di chi guida Tribunali e Procure oggi e che magari si è insediato dopo che i problemi si erano accumulati. Fatto sta che una classifica di efficienza esiste ed è pubblicata sul sito del ministero: sono partito da lì per un giro nei dieci Tribunali più in affanno e ho scoperto che in sei di questi non c’era alcun vuoto d’organico. In quei casi evidentemente chi guida o ha guidato l’ufficio non aveva buone capacità di organizzazione».La lezione di CanzioColpi assestati con garbo e decisione a cui prova a rispondere Legnini, che del Csm è vicepresidente: «Il 13 luglio sarà approvata in plenum la riforma del regolamento interno, completerà il lavoro fatto col Testo unico sugli incarichi direttivi: lì è anticipato il principio secondo cui i capi degli uffici vanno scelti in base alle capacità organizzative». Ma a parte il confronto serrato tra guardasigilli e Consiglio superiore, il convegno dell’Ara pacis si accende su almeno altri due dossier: la partecipazione delle toghe alla campagna referendaria e, soprattutto, i rischi del processo mediatico. Tema, quest’ultimo, sollevato dal primo presidente della Cassazione, Canzio. Che premette: «Non concedo interviste ma questo è un dibattito di qualità e vi partecipo con piacere. Nell’invito vedo al primo posto il nodo della terzietà del giudice: ebbene, il processo mediatico può metterla in pericolo». Canzio spiega: «La proiezione della giustizia sui media mi preoccupa perché c’è uno sbilanciamento sulla fase delle indagini». Del dibattimento i giornali in genere se ne infischiano, mentre «la fase preliminare viene enfatizzata a tal punto che attorno ad essa si formano consensi e aspettative. In questo modo il titolare delle indagini viene quasi spinto fuori della giurisdizione, e a sua volta il giudice si trova a dover mettere in discussione quei consensi e quelle aspettative. Con la conseguenza che la fiducia nella magistratura viene messa in dubbio». Un modo elegantissimo per dire il contrario: e cioè che spesso il magistrato viene condizionato dalle curve tifose del populismo giudiziario.Canzio scolpisce quindi un monito inconfutabile: «Il processo mediatico è pericoloso, ci distacca dal grande insegnamento che proviene dall’etica del limite e dall’etica del dubbio. Dare eccessiva enfasi a quelle che sono pur sempre ipotesi mette in discussione questi principi». Sulle correnti Canzio non fa lo snob e ricorda anche qui uno «scarto», quello fra «elaborazione culturale» e «consenso sugli incarichi»: se il secondo aspetto diventa preponderante «c’è il decadimento: e io mi batto contro questo». Fronte sul quale resta schierato Cantone, che non insiste a definire le correnti come un «cancro» ma ne ricorda le «degenerazioni».Toghe e referendumIl presidente dell’Anticorruzione non pone particolari limiti invece ai giudici che partecipano alla campagna referendaria: «L’unico rischio è la presenza attiva nei comitati». La pensa così anche Legnini, Canzio non nasconde la sua «perplessità» mentre il procuratore di Torino Spataro rivendica il diritto a un «protagonismo virtuoso» dei magistrati come espressione stessa della loro indipendenza dalla politica. «Io parteciperò a un comitato per il no dove però non ci sono esponenti dei partiti: ne fanno parte alcuni dei saggi del presidente Napolitano e a guidarlo sono Rodotà, Zagrebelsky e Pace». È un «punto di avvicinamento», incassa benevolo Legnini. Con Orlando che si limita a un invito: «Va bene tutto, basta che i magistrati, quando fanno politica, evitino di atteggiarsi come se stessero in cattedra». Pretesa minima, a pensarci bene.