Una ventina di agenti della polizia penitenziaria del carcere di Reggio Emilia lo avrebbero fatto stendere sul pavimento, con la faccia rivolta verso terra. Poi gli avrebbero coperto il volto con un tessuto e colpito con dei pugni. Dopodiché lo avrebbero portato in cella di isolamento. Il condizionale è d’obbligo perché l’episodio risalente al weekend prima di Pasqua è al vaglio della Procura dopo l’esposto presentato dal legale del detenuto, Luca Sebastiani.

Come ha notiziato per la prima volta Il Resto del Carlino, nei giorni successivi il 40enne è stato portato all’ospedale Santa Maria Nuova, e risulta non aver riportato ferite gravi. Il presunto pestaggio – segnalato dal difensore civico di Antigone anche al garante regionale Roberto Cavalieri - sarebbe stata immortalato dalle telecamere interne, i cui filmati passeranno al vaglio degli inquirenti.

Secondo quanto riferito dall’avvocato Sebastiani, che lo ha incontrato per un colloquio, il detenuto presentava delle lesioni al volto. Il reato di tortura è stato indicato nella denuncia sporta dal detenuto in riferimento all’uso della presunta violenza dispiegata dagli agenti, specie quando lui sarebbe stato messo in posizione prona, verso il suolo, da più poliziotti. Sarà la Procura a valutare, in fase di indagini preliminari, quanto accaduto: in particolare se siano configurabili reati a carico dei poliziotti perché avrebbero oltrepassato il limite, o se invece abbiano agito in modo proporzionato a riportare alla calma un detenuto esagitato. Sì, perché a loro volta, gli agenti lo avrebbero segnalato per i suoi comportamenti autolesionistici.

Intanto rimane l’incognita sul reato di tortura. La discussione è iniziata con l’arrivo del disegno di legge presentato dalla deputata di Fratelli d'Italia Imma Vietri per abrogare gli articoli 613- bis e 613- ter del codice penale. Il ministro della Giustizia Nordio, durante la question time, ha tranquillizzato che non ci sarà alcuna abolizione. Nei fatti, però, l’eliminazione di quegli articoli avrebbe due conseguenze negative: da un lato, renderebbe meno gravi e talvolta giustificabili gli abusi commessi dalle forze dell'ordine contro le persone private della loro libertà; dall'altro, metterebbe l'Italia in conflitto con gli obblighi internazionali assunti da ormai 35 anni e manderebbe un messaggio preoccupante alla comunità internazionale che cerca di combattere la tortura. Come ha ricordato Luigi Manconi, all’epoca senatore del Partito democratico che fu il primo firmatario della proposta di legge nel lontano 2013, il dibattito per l’introduzione ebbe una accelerazione a seguito della condanna da parte della Corte europea dei diritti umani nei confronti dell’Italia per le violenze degli apparati di polizia messe in atto durante i giorni del G8 di Genova (2001), in particolare per il comportamento tenuto in occasione dell’irruzione notturna nella scuola Diaz. Ma anche a seguito del caso Cedu “Irino e Renne c. Italia”. Nell’ottobre del 2017 venne pronunciata una sentenza di condanna per i fatti avvenuti al carcere di Asti.

I ricorrenti avrebbero, a seguito di un alterco con un comandante di reparto della polizia penitenziaria, subito la reclusione in due diverse celle d’isolamento, dopo essere stati percossi da vari agenti. Privi di un materasso o coperte, di acqua corrente e di riscaldamento, i detenuti sono stati soggetti a violenze e percosse per almeno una settimana, privati del sonno, offesi verbalmente e costretti praticamente al digiuno ed alla somministrazione di piccole quantità d’acqua. Il 16 dicembre 2004, il ricorrente Renne viene condotto in ospedale a causa della sua precaria condizione di salute a seguito dell’isolamento. Il 7 luglio 2011, cinque agenti della polizia penitenziaria sono portati a processo con le accuse di maltrattamenti di cui all’art. 572 c. p., le aggravanti di cui all’art. 61 c. p. n. 9, lesioni personali ex art. 582 c. p. e abuso di autorità contro arrestati o detenuti ex art. 608 c. p.: tutti i reati però prescritti durante il procedimento.

Sul versante delle sanzioni disciplinari, che corrono su un binario parallelo rispetto ai procedimenti penali, soprattutto in relazione alla tortura e ai trattamenti inumani, vediamo l’applicazione della sospensione dal servizio dai 4 ai 6 mesi (nessuno di queste però disposte durante l’indagine), e solo due agenti licenziati, di cui uno reintegrato. Le Corti Italiane non possono fare altro quindi che confermare l’accertamento dei fatti così come descritti dai ricorrenti, in un contesto ( quello degli anni 2004 e 2005), in cui è ravvisata nel carcere di Asti una sistematica pratica di maltrattamenti simili nei confronti dei detenuti considerati “problematici”. Tutto questo è avvenuto nella più completa impunità dovuta all’acquiescenza dell’allora amministrazione penitenziaria riguardo a tali incresciosi episodi di violenza. La Corte di Strasburgo non ha nutrito dubbi sulla qualificazione delle sevizie subite dai ricorrenti come tortura ai sensi dell’art. 3 Cedu. Anche in questo caso, la Cedu ha parlato dell’assenza del reato di tortura all’interno del codice penale italiano.

Nel 2017 quindi viene introdotto il reato di tortura. Anche se ben diverso da quello proposto da Luigi Manconi. Le differenze cruciali che hanno fatto della proposta iniziale una legge parziale sono essenzialmente tre. L’ex senatore le riassume così. La prima. Il reato è comune e non proprio: ovvero attribuibile a chiunque e non imputabile solo ai pubblici ufficiali e a chi esercita un pubblico servizio. Un reato, dunque, che non deriva dall’abuso di potere di un funzionario dello Stato ma da una qualunque forma di violenza tra individui. La seconda. La necessità che vi sia una pluralità di violenze e di minacce e il ripetersi di più condotte perché si verifichi la tortura. Il rischio è che una violenza esercitata da un singolo ufficiale su una persona oppure una violenza non reiterata e non protratta nel tempo non rientri nella fattispecie di tortura. La terza. La pretesa che vi sia una verificabilità oggettiva del trauma psichico derivante da tortura.

Eppure, nonostante le imperfezioni, dal 2017 a oggi, il reato di tortura è stato contestato a numerosi imputati in diversi procedimenti giudiziari: da Ferrara a San Gimignano, da Torino a Sollicciano, fino a Santa Maria Capua Vetere, in genere a carico di appartenenti alla polizia penitenziaria. In alcuni c’è stata già sentenza di condanna. L’esistenza del reato di tortura non impedisce alle forze dell’ordine di svolgere diligentemente il loro lavoro, anzi, è una misura che tutela anche chi opera per il rispetto della legge. Così come, non è vero che l’uso della forza si traduce in tortura.

Diversi i casi archiviati, perché i magistrati stessi hanno reputo l’uso legittimo. Come non ricordare il fatto – denunciato dal Garante nazionale nel 2019 - dell’uso degli idranti usato nei confronti di un detenuto chiuso dentro la cella? Il detenuto, preso da una evidente esagitazione aveva rotto il portellino dello spioncino e gli agenti volevano che lui consegnasse il pezzo di ferro e il fornelletto che aveva in dotazione. Siccome lui non aveva eseguito l’ordine, gli agenti avrebbero aperto l’idrante, indirizzando il getto d’acqua in ogni angolo della cella. Fatto denunciato alla procura competente che, a sua volta, ha reputato di archiviare perché non ha intravisto alcun reato. Opinabile o meno, questa è la dimostrazione che gli agenti, agendo in buona fede, non corrono alcun rischio.