Che sulla riforma del processo penale si sarebbe giocata una partita piena di trappole era chiaro a tutti. Ma proprio ora che il disegno di legge-monstre si avvia verso il sì del Senato, Palazzo Chigi misura tutti i rischi della sfida. La novità è che la commissione Giustizia di Palazzo Madama si è finalmente messa a marciare sugli emendamenti al ddl. Ieri le prime votazioni, la settimana prossima si arriverà ai nodi più intricati, che poi si riducono essenzialmente alla prescrizione. E lì il governo maneggerà un’affilatissima arma a doppio taglio: da una parte si dovrebbe raggiungere un compromesso tra Pd e Area popolare - ossia l’Ncd di Alfano - sui tempi di estinzione dei reati, con l’addio all’emendamento Casson; dall’altra la prevedibile insurrezione di sinistra dem e cinquestelle metterà Matteo Renzi all’indice come fautore di un’ignobile retromarcia. Il che in vista del voto referendario è un problema.A chiedere di spicciarsi è stato d’altra parte Sergio Mattarella in persona, come anticipato ieri da Repubblica. Lo ha fatto dopo aver ascoltato l’allarme di Giovanni Canzio, primo presidente della Cassazione. Alla Suprema corte arrivano ogni anno 80mila ricorsi, e si tratta di un carico ai limiti dell’insostenibile, ha ricordato Canzio nei suoi ultimi interventi al Csm. Canzio è componente di diritto del Consiglio superiore, Mattarella ne è il presidente, e tra i due esiste uno scambio continuo. Il Capo dello Stato è consapevole che, a fronte degli alert della Cassazione, il ddl sul processo penale offre risposte precise. Parte della riforma ridefinisce infatti la disciplina delle impugnazioni. Introduce limiti ai ricorsi sia in appello che alla Suprema corte. Un sollievo per il quale secondo il presidente della Repubblica non è più lecito attendere.E anche a partire da questa considerazione che Mattarella ha fatto sentire la propria voce. Ha trovato in realtà le porte spalancate di Pietro Grasso: il presidente del Senato ha auspicato che l’esame dell’aula sulla riforma penale possa esserci nell’ultima settimana di luglio. Ora tocca alla commissione Giustizia. Il cui presidente, Nico D’Ascola è stato messo in allerta. Tutto sta a trovare il famoso punto di sintesi sulla durata dei processi per corruzione. E a occuparsi del negoziato è proprio D’Ascola, che nelle ultime ore si è confrontato sia con il capogruppo pd al Senato Luigi Zanda che con il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Ci sarà il passo in avanti rispetto alla ex Cirielli, che nel caso del reato di corruzione si tradurrà un risultato non trascurabile: raddoppio dei termini di prescrizione rispetto a quelli che erano previsti prima della legge Severino. Dai 7 anni e mezzo fino indicati fino al 2012, si dovrebbe arrivare a 14 anni e 10 mesi. Una misura accettabile anche per gli alfaniani, certo assai meno draconiana rispetto ai quasi 22 anni del lodo Ferranti passato alla Camera. E soprattutto, nulla a che vedere con il processo infinito dell’emendamento del relatore Felice Casson. Addio anche a un’altra forzatura proposta da quest’ultimo, che per i processi di corruzione prevedeva che i termini di estinzione del reato decoressero non dal momento in cui questo era commesso ma dalla notitia criminis. Il tutto grazie all’eliminazione dell’inasprimento introdotto alla Camera sull’articolo 157 del codice penale. Ma ai grillini l’ipotesi non piacerà. E neppure agli anti-renziani dentro e fuori del Pd. Ieri Pippo Civati, che raramente si era occupato di tecnicalità del processo, si è chiesto platealmente «Renzi da che parte sta». E già prefigura un «papocchio», «norme a metà per non dispiacere i fidi alleati di governo». In realtà anche il guardasigilli Orlando terrebbe a rispettare la scadenza di luglio per il sì alla riforma. Tanto più che nel ddl, oltre alla delega sulle intercettazioni, c’è quella sull’ordinamento penitenziario. È a quello snodo che restano sospesi gli auspici degli Stati generali sul carcere, voluti da Orlando. Ma ormai i tupamaros del processo infinito non dovrebbero più tenere la giustizia in ostaggio.