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suicidi carcere record
Sono stato sottosegretario di Stato al ministero della Giustizia dal 29 gennaio 2016 al 1 º giugno 2018, nei governi Renzi e Gentiloni; una esperienza bellissima, che mi ha consentito di conoscere dal di dentro la complessa organizzazione penitenziaria che per i cittadini comuni è spesso rappresentata, e riassunta, dalle carceri presenti nelle loro città.
Ho visitato innumerevoli istituti penitenziari, ho favorito il completamento di nuovi istituti che altrimenti sarebbero stati già vecchi, ove fosse trascorso altro tempo dall’inizio dei lavori, ho conosciuto i direttori penitenziari, i comandanti, i funzionari giuridico- pedagogici, il personale amministrativo, il personale del Corpo della Polizia Penitenziaria e, per quanto politico non da oggi, ho scoperto un mondo ben più ampio, ricco di competenze, articolato, rispetto all’idea che pur da parlamentare avevo, per quanto mi interessassi costantemente di tali temi.
Ho conosciuto anche Sbriglia, dirigente generale, che mi è stato sempre vicino per tante importanti iniziative, con la sua schiettezza e sincerità, frutto di una lunga esperienza di lavoro sul campo vero, che ti tiene sequestrato ai problemi del carcere che devi risolvere e non, invece, di quello immaginato, saggistico o dei manuali del nulla.
Con lui ho affrontato e risolto molte problematicità, frutto spesso di indifferenze pregresse a tutti i livelli, per cui la sua boutade, in verità, non mi ha sorpreso, perché spesso mi segnalava le cronicità e i nonsense di un sistema organizzativo che in molte occasioni non riusciva a imporre una visione coerente con i principi decantati dalla nostra carta costituzionale, anche perché spesso c’erano veri e propri deficit di esperienza sul campo di parte dei dirigenti.
Eppure, lo stato di malessere e di abbandono che si respirava e, purtroppo, ancora si respira, nelle nostre prigioni, sia per la condizione dei ristrettì che per il personale in servizio, prova ne sia la costante turbolenza ed il grande livello di conflittualità che si registra con la generalità delle OO. SS. di tutto il personale, fornisce un quadro ancora preoccupante.
La pratica della rinuncia a comunicare l’effettivo stato delle carceri ha probabilmente coinvolto molti operatori penitenziari, e potrebbe perfino aver favorito, inconsapevolmente, da parte dei vertici massimi, come nella disastrosa gestione Basentini, le conseguenze nefaste che abbiamo registrato in quel drammatico 2020 delle carceri italiane, anno del Covid- 19, dove piuttosto che sforzarsi di dare sfiato ad una pentola in ebollizione che si surriscaldava sempre di più, si è preferito puntare su una logica di eccesso di chiusura degli istituti penitenziari, impedendo colloqui, l’accesso dei volontari, la riduzione delle attività socializzanti tutte, così spingendo verso il rischio di una esplosione rabbiosa, con la sequela di rivolte, distruzioni, evasioni di massa, morti all’interno di quelle mura ermeticamente chiuse, dando vita a molteplici violenze che non si vedevano da almeno sessant’anni.
Qualcuno potrebbe al riguardo affermare che stili di governo diversi, inevitabilmente avrebbero prodotto risultati diversi. Francamente penso che sia vero.
Voglio, al riguardo, ricordare che, invece, è proprio nel periodo che mi ha visto sottosegretario alla Giustizia che viene alla luce la normativa contro la pratica della tortura; probabilmente avevamo visto giusto, ma, atteso quanto è poi accaduto in diversi istituti italiani, primo tra tutti quello di Santa Maria Capua Vetere, lo Stato, col cambio dei vertici politici e di alta amministrazione, non è stato capace di favorire la produzione di anticorpi per tempo. Eppure, esempi di buoni capi di dipartimento, da sempre provenienti dalla magistratura, in passato anche recente l’abbiamo avuti. Ho lavorato fianco a fianco, per esempio, con Santi Consolo, che ha cercato di comprendere quel mondo così flessibile e certamente potrebbero essere citati altri brillanti esempi. Eppure Sbriglia ci riporta a un ragionamento più ampio, che non può essere ridotto alla dialettica “magistrati sì, magistrati no”. Ci suggerisce una valutazione basata sulla completezza delle competenze che potrebbero tranquillamente essere in capo anche ad alti funzionari che non siano necessariamente magistrati.
Le carceri, a ben vedere, sono delle città nelle città, con tutte le problematiche di quegli habitat: dalla cura del decoro urbano, ai servizi da rendere a tutti i cittadini, detenuti e operatori, che lì vivono per lunghi periodi della loro esistenza. Il carcere è fatto di architettura, di sanità, di scuola e formazione professionale, di lavoro, di indagini continue sulla personalità delle persone detenute, di sicurezza dei lavoratori, di appalti i più diversi, di contratti collettivi nazionali di lavoro da onorare e di relazioni sindacali da curare con attenzione, di attività di sorveglianza, di ricostruzione delle relazioni sociali e familiari, di internazionalità e di problemi legati all’immigrazione, alla tossicodipendenza, al disagio psichiatrico, alle tematiche delle diversità di genere, etc. etc.; insomma, il carcere non è strumentale esclusivamente ai processi penali e alle attività d’indagine giudiziaria.
Quindi ben venga un momento di necessario confronto per una possibile riforma strutturale e organizzativa che coinvolga in pieno ogni responsabilità di governo, se è vero come è vero che le carceri, almeno sulla carta, sono i luoghi dove esclusiva e massima è l’autorità dello Stato e, quindi, del relativo onere di amministrazione, che richiede capacità gestionali, management amministrativo di prima grandezza, saper fare le cose. Magistrato o no, chi dovrà dirigere l’Amministrazione Penitenziaria dovrà soddisfare tutti questi requisiti e non solo quelli di essere un brillante interprete delle norme penali.