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Pignatone
«Io dal 29 maggio 2019 non ho mai parlato, ho atteso di essere in una sede istituzionale. In questi tre anni ho avuto, su di me e sui miei familiari, fango, accuse e calunnie». L’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone rompe il silenzio dopo tre anni e lo fa in aula a Perugia, come testimone nel corso del processo sulle rivelazioni che vede imputati l’ex capo dell’Anm Luca Palamara e l’ex pm di Roma Stefano Rocco Fava, ora giudice civile a Latina. Pignatone ha però confermato in aula, durante una lunga audizione, che le notizie segrete pubblicate da Fatto Quotidiano e La Verità il 29 maggio 2019 erano in realtà a conoscenza di numerose persone all’interno della procura capitolina, in quanto lui stesso ne aveva parlato con tutti gli aggiunti, tra i quali Angelantonio Racanelli. Palamara e Fava non erano, dunque, gli unici a poter passare quell’informazione alla stampa. In quegli articoli si ripercorrevano due riunioni infuocate tra Pignatone, l’aggiunto Paolo Ielo (ora parte civile nel processo) e Fava, durante le quali il capo della procura aveva negato la sussistenza di motivi validi per astenersi nei procedimenti a carico dell’ex avvocato esterno di Eni, Piero Amara, e dell’imprenditore Ezio Bigotti, dati i rapporti professionali di entrambi con il fratello Roberto, professore associato di Diritto tributario con studio a Palermo. Secondo Fava, però, non sarebbe spettato a lui stabilire se ci fossero le condizioni o meno per l’astensione. L’ex pm romano, difeso da Luigi Antonio Paolo Panella, non aveva inoltre creduto al pentimento di Amara, che aveva iniziato a collaborare con i magistrati, chiedendo nuovamente il suo arresto per una ipotesi di bancarotta. I vertici della procura di Roma, però, si opposero a tale richiesta, sottraendogli il fascicolo. Le note di quegli incontri, ha confermato ieri Pignatone, sono state anche trasmesse all’allora procuratore generale della Corte d’appello di Roma, Giovanni Salvi, che poi le inviò alla procura generale della Cassazione. Insomma, le notizie pubblicate dai giornali erano nella disponibilità di molte persone. E assodato questo fatto, confermato dall’ex numero uno della procura, le accuse a carico di Fava e Palamara si fanno più deboli. L’ex sostituto di Roma è accusato di essersi «abusivamente introdotto nel sistema informatico Sicp e nel Tiap acquisendo verbali d’udienza e della sentenza di un procedimento» con l’obiettivo, secondo l’accusa, «di avviare una campagna mediatica ai danni di Pignatone, da poco cessato dall’incarico di procuratore di Roma e dell’aggiunto Paolo Ielo», costituitosi parte civile, da effettuarsi anche con «l’ausilio» di Palamara, «a cui consegnava tutto l’incartamento indebitamente acquisito». L’intento, dunque, sarebbe stato quello di «far avviare un procedimento disciplinare nei confronti dell’allora procuratore Pignatone» e «effettuare una raccolta di informazioni volta a screditare Ielo, anche attraverso l’apertura di un procedimento penale a Perugia» e quindi «a cagionare agli stessi un danno ingiusto». L’esposto di Fava è stato archiviato dal Csm a settembre scorso per decorrenza di termini, dopo due anni di rinvii legati anche all’emergenza Covid. «Ci tengo a dire che il primo a essere dispiaciuto del fatto che il Csm, probabilmente per ragioni di tempo, non abbia potuto fare una verifica sull’esposto di Fava - ha detto Pignatone in aula -, perché avrebbero capito che io ho fatto quello che dovevo fare, non c’era nessuna incompatibilità. Ho sentito delle molte doglianze del dottor Fava, alcune partite da lui e altre riportate, “scippo di processi”, “misure cautelari che non hanno avuto corso”: nessuna di queste doglianze è fondata e nessuna di tutte queste doglianze faceva parte dell’esposto al Csm che verteva su una presunta incompatibilità». A Palamara e a Fava viene contestato di aver rivelato notizie d’ufficio «che sarebbero dovute rimanere segrete», e in particolare «che Fava aveva predisposto una misura cautelare nei confronti di Amara per il delitto di autoriciclaggio e che anche in relazione a tale misura il procuratore della Repubblica non aveva apposto il visto». Secondo Pignatone, però, «non c’erano motivi di astensione». Per quanto riguarda Ezio Bigotti, «quando sono venuto a conoscenza della sua iscrizione ho subito detto ai colleghi che era cliente di mio fratello», avvocato tributarista, ha spiegato, ricordando di aver fatto «una relazione al procuratore generale che ha proceduto a dire che non c’erano elementi per l’astensione. Io sono convinto che non c’erano motivi di astensione ma ho ritenuto opportuno farlo sul piano della lealtà professionale». Per quanto riguarda il procedimento Eni-Napag, l’ex procuratore ha spiegato di essersi accorto «che c’era un problema di competenza territoriale e prima di inviare gli atti bisognava parlare con i colleghi di Milano. Il 27 febbraio ho avuto l’infelice idea di scrivere a Fava per farmi dare un breve ragguaglio sul coordinamento con Milano. E Fava fa una cosa di una gravità estrema, scrive a Milano e chiede l’invio degli atti di competenza, praticamente una dichiarazione di guerra: qui non siamo più nello scambio di atti, Fava crea il conflitto con Milano, una cosa gravissima, senza averne parlato con me o con l’aggiunto. Lo fa di testa sua, senza dire a nessuno, mentre noi ci eravamo raccomandati del coordinamento con Milano. Coordinamento con le altre procure che negli anni alla guida della procura di Roma ho sempre incentivato». Poco dopo, il procuratore aggiunto di Milano Laura Pedio contattò Pignatone, dicendo «che erano pronti a un ricorso alla procura generale della Cassazione e le spiegai - ha aggiunto - che era iniziativa personale del pm non condivisa con l’ufficio».