Il tema della prescrizione del reato, a cadenza periodica, torna di attualità.

Pochi giorni fa, in Corte d’Appello a Torino, il presidente del collegio penale Paola Dezani è arrivata a scusarsi per non essere riuscita a celebrare in tempo il processo a carico di un imputato accusato di stupro in danno di una bambina di 7 anni. Il fascicolo era rimasto “in sonno” per 9 anni prima che fosse fissato l’appello. Troppo tardi. Reato prescritto con conseguente indignazione generale.

Fra le toghe, come abbiamo dato conto ieri su questo giornale, si è immediatamente aperto un dibattito.

La Giunta esecutiva centrale dell’Anm ha espresso «sconcerto per il ritardo con cui è stato celebrato il giudizio di secondo grado». Sottolineando, inoltre, come questa vicenda giudiziaria «denoti una carenza organizzativa radicatasi negli anni ed una inadeguata valutazione delle ineludibili priorità nella trattazione dei processi, soprattutto in relazione alla gravità e alla delicatezza dei fatti da giudicare».

L’organizzazione dell’ufficio, infatti, è la nuova “frontiera” su cui si gioca la credibilità della giurisdizione. Il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, commentando la scorsa settimana la circolare tabelle, ha evidenziato come sia importante la «cultura dell’organizzazione». Argomento questo molto caro anche al ministro della Giustizia Andrea Orlando.

A difesa degli uffici giudiziari piemontesi, invece, le toghe della Giunta Anm del Piemonte e della Valle d’Aosta le quali, pur ammettendo che il processo aveva avuto «una sosta davvero prolungata prima che si arrivasse alla sua trattazione», davano però la colpa dell’accaduto alle carenze di organico e al Parlamento che non ha ancora provveduto a cambiare la prescrizione. Una modifica che, come affermato anche dal presidente dell’Anm Piercamillo Davigo, dovrebbe portare allo stop della prescrizione dopo il primo grado di giudizio.

Le toghe di “Area” Piemonte, in disaccordo con il solito refrain secondo cui la causa della prescrizione è sempre da ascrivere alle carenze di organico e alle mancate modifiche legislative, evidenziavano come in casi come questo però «non basta segnalare le distorsioni e le ingiustizie conseguenti alla lentezza dei processi e invocare le riforme normative necessarie».

Le considerazioni fra gli “addetti ai lavori”, al netto dei comunicati associativi, sono però molto diverse. Un importante presidente di sezione penale del Tribunale di Milano, premettendo come l’istituto della prescrizione sia una norma di civiltà e che non sia pensabile, in tale ottica, tenere un cittadino sotto processo tutta la vita, ha dato nei forum associativi una lettura molto precisa della questione. Subito condivisa da tanti altri magistrati.

Il problema della prescrizione del reato, secondo l’alto magistrato, è dovuto essenzialmente a due fattori: il codice di procedura penale del 1989 e l’aumento esponenziale, sull’onda giustizialista seguita a “Mani Pulite”, di nuove fattispecie penali che ha comportato un raddoppio dei reati.

Ciò ha determinato la paralisi del sistema. Il vecchio codice di procedura penale, basato sul rito accusatorio, consentiva, a differenza dell’attuale, processi molti più veloci. E non esisteva il patteggiamento. Come ricordato dalla toga milanese, con il vecchio rito la prescrizione del reato era un evento eccezionale che comportava anche l’obbligo di una relazione formale al ministro per giustificare l’accaduto.

In conclusione, per correggere un sistema processuale che fa acqua da tutte le parti non si deve, secondo il magistrato, agire sull’anello debole, cioè l’imputato, ma è necessaria una seria riforma della giustizia. Partendo da una efficace depenalizzazione. Tutto il contrario di quello che vogliono i 5Stelle che si preparano a governare il Paese.