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Tanti sono i dossier di cui dovrà occuparsi il neo ministro degli esteri Luigi Di Maio, ma uno riguarda anche la situazione dei detenuti italiani all’estero. Secondo gli ultimi dai messi a disposizione dalla Farnesina e relativi a luglio scorso, sono ben 2.113 gli italiani reclusi nelle carceri del mondo. Solo nei paesi dell’Unione europea sono 1611 dei quali solo 8 sono in attesa di estradizione. Mentre 120 sono quelli reclusi nei paesi extra dei quali solo 3 sono in attesa di estradizione. Per quanto riguarda le Americhe, sono ben 250 e spicca il Perù con 40 detenuti italiani, preceduto dall’Argentina con 36 e 40 in Brasile. Ma ci sono reclusi italiani anche nei paesi del Medio Oriente e africani, tra i quali spicca il Marocco con 11 e 9 negli Emirati arabi.
Statisticamente le violazioni in materia di stupefacenti sono le cause principali della detenzione degli italiani all’estero. Le attività degli uffici diplomatici e consolari all’estero, coordinate dalla Farnesina, consistono nel prestare assistenza ai connazionali detenuti e, all’occorrenza, nel mantenere i contatti con le famiglie che spesso si trovano in Italia. Ma non risulta facile, visto il non raro ostruzionismo di alcune nazioni straniere, compreso le lentezze di alcuni consolati e ambasciate italiane. Dal dossier del Viminale emerge comunque un dato sconcertante: più della metà sono in attesa di giudizio e risultano poche decine le persone in attesa di essere estradate in Italia per scontare la pena nei nostri penitenziari, condizione che dovrebbe essere garantita dalla Convenzione di Strasburgo del 1983 e da diversi Accordi bilaterali nei casi che riguardano le persone già condannate. In molti casi gli italiani non hanno nessun diritto per un equo processo. Basti pensare che in alcuni paesi è assistenza di un avvocato, non è presente un interprete durante gli interrogatori e in molti casi le autorità non fanno trapelare nessuna notizia in modo tale che è impossibile farsi una idea dettagliata del processo.
L’ultimo caso, emblematico, riguarda Lara, 30enne, italiana e alla fine del 2015 si trasferisce alle Canarie, nell’isola Lanzarote, con il sogno di una vita diversa. E quella vita diversa arriva, ma non sicuramente come immaginava lei. Una sera del 2016 esce da un locale col fidanzato e tornando a casa in auto provocano un incidente stradale in cui muoiono due pedoni. Lara si assume la responsabilità che l’ha portata in un vortice dalla quale vorrebbe e deve uscire. Da tre anni è bloccata nell’isola spagnola per quella vicenda giudiziaria che la vede accusata di omicidio colposo. A denunciare il caso è “Prigionieri del Silenzio” la onlus, impegnata per la tutela dei diritti dei connazionali detenuti all’estero e il sostegno alle loro famiglie, che si sta occupando della vicenda e si sta battendo per farla tornare in Italia. Sì, perché Lara sta male, non mangia più e ha urgente bisogno di cure. Tante sono le storie di diversi italiani all’estero. Un esempio che racchiude tutta la difficoltà degli italiani che si ritrovano coinvolti in situazioni giudiziarie dove lo stato di diritto è problematico, riguarda quello avvenuto in India. Parliamo di Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni che - dopo cinque anni di calvario perché condannati all'ergastolo - sono stati liberati e fatti rientrare qualche anno fa in Italia.
Furono accusati di omicidio nei confronti di Francesco Montis, il loro compagno di viaggio. La tragedia ebbe inizio il 4 febbraio del 2010 quando i tre, di passaggio nell'hotel Buddha di Chentgani, fecero uso di droghe e Francesco si sentì male. I due lo portarono in ospedale ma Francesco morì. Il responso dell'autopsia fu fatale: morte per soffocamento. A nulla valsero le dichiarazioni della madre di Francesco che avrebbero potuto scagionarli: il figlio soffriva di gravi crisi d'asma. Quando poi venne chiesto un secondo esame autoptico, non fu possibile eseguirlo perché l'obitorio era infestato dai topi e così il corpo di Montis venne cremato. I due vennero incarcerati il 7 febbraio 2010 e dopo un anno di detenzione il pubblico Ministero chiese la condanna a morte per impiccagione. A luglio del 2011 la pena venne convertita in ergastolo e confermata poi nel settembre 2012. Da quel giorno i due aspettavano la sentenza della Corte Suprema di Delhi che per lentezza dovuta ad assenze e rinvii, non arrivava mai. Nel frattempo i due italiani erano stati reclusi nel carcere di Varanasi in condizioni precarie: temperature che arrivano a 50 gradi e costretti a bere acqua non potabile, senza alcun contatto con il mondo esterno.