Sembra un’indagine come le altre: l’accusa pesantissima di corruzione; le intercettazioni e le iscrizioni finite sui giornali prima che ne sappiano i diretti interessati; un indagato, Luca Palamara, che nega ogni addebito («respingo l’accusa infamante di aver preso 40mila euro»); un altro indagato, il consigliere Csm Luigi Spina, che si autosospende. In apparenza è tutto uguale.

Ma non lo è. Perché stavolta le persone infangate da ipotesi di reato diffamanti sono a loro volta magistrati. Perché non a caso, tra le frasi offerte da Palamara ai taccuini dopo la seconda giornata di interrogatorio a Perugia, c’è anche un «segnale distensivo» inviato a un collega, «l’aggiunto Paolo Ielo» che, dice il pm romano accusato di corruzione, «non ho mai avuto intenzione di danneggiare: giudizi e opinioni captati in un’intercettazione rappresentano solo momenti di tensione, interna all’ufficio, per la nomina dei vertici di Roma». E ancora, sempre Palamara aggiunge che sulla «nomina» in questione, quella appunto del “successore” di Pignatone alla Procura della Capitale, ha la «convinzione» e la «consapevolezza» che «avverrà, da parte del Csm, senza alcuna interferenza».

Un doppio messaggio di tregua. Sia sui «veleni romani» a cui lui stesso, nel primo round dell’interrogatorio disputato giovedì, aveva attribuito l’origine delle ipotesi contestategli dai colleghi di Perugia; sia sul mostruoso conflitto tra le correnti a proposito appunto del futuro capo dei pm capitolini. Il resto delle nuove dichiarazioni di Palamara riguarda il cuore delle contestazioni rivoltegli, ossia i 40mila euro e le «utilità» che secondo l’accusa avrebbe ricevuto dagli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore, siracusani con avamposti a Roma, per favorire la nomina a procuratore di Gela di un pm di Siracusa arrestato un paio d’anno dopo i presunti traffici, Giancarlo Longo.

«Mi sono dichiarato totalmente estraneo alla infamante accusa di aver ricevuto 40mila euro», dice l’ex consigliere Csm e tra i leader di Unicost, «ho fornito ogni elemento per dimostrare di non aver mai ricevuto denaro, di non aver mai avuto rapporti con Amara e Calafiore e di non aver mai perorato il nominativo di Longo». Palamara aggiunge che non avrebbe avuto alcuna possibilità di spingere affinché il collega ottenesse la nomina a Gela giacché «quell’anno non ero nella commissione del Csm competente per gli incarichi, né ho fatto ad altri quel nome». Poi precisa di aver prodotto «documentazione» per smentire l’ipotesi di aver ricevuto vari benefici dai due avvocati.

Il dato certo è che l’indagine per corruzione in corso su Palamara è come un satelitte che ruota attorno al vero polo d’attrazione: lo scontro fra correnti per scegliere il capo di una ben più importante Procura, quella di Roma. Non a caso il secondo pm indagato, Stefano Fava, è accusato di aver passato un proprio esposto, a Palamara, presentato contro il capo appena congedatosi da quell’ufficio, Giuseppe Pignatone.

Il terzo pm indagato, Luigi Spina - accusato di aver passato a Palamara, invece, notizie proprio sull’inchiesta a suo carico da parte dei colleghi di Perugia - è consigliere nel Csm attuale. Ieri il comitato di presidenza del “parlamentino” dei giudici, formato dal vicepresidente David Ermini e dai vertici della Cassazione, ha preso atto dell’autosospensione da parte di Spina: «Non parteciperà alle attività delle commissioni e del plenum». Viene dunque meno la necessità di metter ai voti la sua sospensione. Atto che mostra la dignità di questo pm calabrese, finora distintosi per la difesa dei colleghi dagli attacchi mediatici. Resta il fatto che per i consiglieri del Csm le norme sulla sospensione sono più garantiste di quelle sulle “guarentigie” dei parlamentari: servono i due terzi e non la metà dei favorevoli. Si è scoperto solo ora. E dimostra ancora una volta come il caso giudiziario, in realtà, sia molto diverso dagli altri.