Non che non fosse già venuto allo scoperto. Ma ora Roberto Fico difende l’ormai archiviata riforma carceraria con argomentazioni impietose. Lo fa in una lettera al direttore di Avvenire, pubblicata ieri dal giornale di Marco Tarquinio, e dei vescovi. Chiede alla «politica» e alle «istituzioni» di assumersi la «responsabilità di intercettare» il «dibattito sulla cultura della pena e del modello penitenziario» che «ha preso vita, ormai da tempo, fra associazioni e operatori del settore». Secondo il presidente della Camera «siamo dentro un processo di cambiamento culturale e di paradigma: si parla sempre meno di “pena” e sempre più, al plurale, di “pene”, come del resto dice la Costituzione». In un condensato di messaggi garbati ma severi al fronte giustizialista della maggioranza ( e agli opinionisti di riferimento), Fico dunque spiattella come se niente fosse il nesso tra misure alternative e diminuzione del tasso di recidiva. Coraggioso. E anche rivelatore. Di un clima ormai del tutto particolare in cui si trova a operare il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede.

Lui, il guardasigilli, il detentore di ogni prerogativa decisoria sulla politica penitenziaria. Ma è anche il punto di scarico di tensioni interne all’area di governo, non più ignorabili. Da una parte chi, come singoli esponenti dell’esecutivo ( compreso Matteo Salvini) e organi di stampa come il Fatto quotidiano, presidia il fronte della controriforma, e contesta qualsiasi apertura alle misure alternative. Dall’altra parte singoli ma autorevoli esponenti soprattutto dei cinquestelle che idealmente sono schierati con la riforma di Orlando, e cioè con un maggiore ricorso all’esecuzione penale esterna, e non si tratta di figure di retroguardia, visto che oltre a Fico si può citare Beppe Grillo.

In mezzo c’è Bonafede. Che finora ha compiuto scelte ascrivibili alla prima delle due scuole di pensiero: ha rinunciato a esercitare la delega, scaduta il 3 agosto scorso; e ha preferito scrivere un altro decreto, dal contenuto profondamente cambiato, con singoli interventi organizzativi e cancellazione completa del cuore della riforma, ossia delle norme che eliminavano le preclusioni automatiche nell’accesso ai benefici e alle misure alternative. Fico sembrerebbe isolato. Ma non lo è. Innanzitutto perché come ricordato c’è Grillo, garante e fondatore del partito di maggioranza relativa, che lo scorso 13 luglio ha pubblicato un incredibile post sul sogno di «un mondo senza carceri». Ma in controluce si scorge anche una certa preoccupazione che inizia ad avvertirsi a via Arenula. Intanto in un’intervista concessa la settimana scorsa a Radio 24, il ministro Bonafede ha detto che per migliorare la condizione dei detenuti si può pensare «anche» alle «misure alternative», ma solo «per chi davvero se le merita». Una assai prudente e solo ipotetica riapertura della questione, certo, ma è comunque un segna-È le. Vi si possono aggiungere le parole ( riportate per esteso in altro servizio di questa pagina, ndr) del sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone, secondo cui «dobbiamo dedicare la massima attenzione anche al fenomeno preoccupante del crescente numero di suicidi tra i detenuti». Segno di un allarme sul micidiale cocktail tra sovraffollamento e delusione dei reclusi per la mancata riforma.

Fico deve la propria autorevolezza al profilo super partes della carica che riveste. Ma proprio per questo colpisce la precisione chirurgica delle stilettate con cui controbatte ai controriformisti. Nella lettera pubblicata ieri da Avvenire sembra quasi scusarsi per la distanza fra il testo appena emanato dal governo e il decreto accantonato: «Un nuovo schema che attua parte della delega originaria.

Non entro nel merito del testo e mi limito a considerare che la riforma in discussione, più che un punto di arrivo, costituisce il tassello di un percorso».

Modo elegante per dire: ci vorrebbe altro.

Ricorda quindi che certezza della pena non può voler dire certezza che essa venga espiata in carcere, visto che anche le misure alternative sono una forma di esecuzione penale. Considerazioni che si potrebbero ascoltare dall’estensore della riforma, il professor Glauco Giostra. Fico aggiunge che in ambito accademico, da avvocati e magistrati «si propone l’introduzione di programmi di recupero», e che appunto tale «cambiamento di paradigma va intercettato dalla politica e dalle istituzioni». Tradotto: servono proprio le norme escluse dal decreto. Non solo: «Le statistiche attestano tra l’altro che le misure alternative alla detenzione producono minori tassi di recidiva, e quindi più sicurezza per i cittadini». E questo è forse il passaggio più importante. Perché sulla fondatezza delle tesi per cui più si sconta la condanna al di fuori della cella e meno reati si compiono quando si torna liberi, si è consumata un’aspra polemica nella scorsa primavera tra i fautori della riforma e il Fatto quotidiano.

Il direttore Marco Travaglio contestò già a marzo, in un durissimo editoriale, l’idea che le misure alternative fossero sinonimo di maggiore sicurezza. Il suo giornale propose dopo alcune settimane le critiche di uno studioso, Roberto Russo, con cui si metteva in discussione la scientificità degli studi sulla recidiva. Dall’altro fronte rispose anche il Corriere della Sera, con un argomentato articolo di Luigi Ferrarella che citava gli studi di Banca d’Italia e Istituto Einaudi sull’esemplare “caso Bollate”. Fico neppure si affanna a scegliere tra i due fronti. Da’ per scontato che tesi come quelle del Fatto siano sbagliate. E pianta una bandiera che non potrà essere priva di significato nel dibattito sul carcere all’interno della maggioranza.