LA FAMIGLIA: «SENTENZA GIUSTA». IL LEGALE DEGLI IMPUTATI: «PROCESSO MEDIATICO»

Sono stati condannati all'ergastolo per omicidio volontario i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, accusati della morte di Willy Monteiro Duarte avvenuta nel settembre del 2020 a Colleferro. I giudici della Corte di Assise di Frosinone hanno anche disposto una condanna a 23 anni per Francesco Belleggia e a 21 anni per Mario Pincarelli. Alla fine della lettura della sentenza applausi e lacrime da parte della famiglia e degli amici di Willy Monteiro. «È una sentenza giusta», ha commentato il padre dello sfortunato ragazzo di origine capoverdiana. Mentre i suoi legali, Vincenzo Galassi e Domenico Marzi, hanno aggiunto: «Una sentenza ineccepibile in linea con le conclusioni del pm che legge le pagine processuali con un rigore assoluto e anche un riconoscimento di qualità per quanto riguarda l'attività investigativa iniziale delle forze dell'ordine». Soddisfazione appunto per il pm Giovanni Taglialatela: «È quello che speravamo in relazione al lavoro svolto, ma sappiamo che il giudizio poi si presta a delle variabili e il fatto aveva un contesto e delle sfumature che potevano dare adito a una diversa valutazione. Tuttavia le prove che avevamo prodotto erano, a nostro avviso, assolutamente sufficienti e più che fondate per chiedere quello che abbiamo chiesto», ha concluso. Ovviamente di diverso avviso la difesa dei fratelli Bianchi, assistiti dall'avvocato Massimiliano Pica: «Quando è stata letta la sentenza, mi sarei aspettato tutto tranne che omicidio volontario con pena dell'ergastolo. Questa decisione va contro tutti i principi logici. Sono basito». Il legale per i due ragazzi aveva chiesto l'assoluzione e in via subordinata l'omicidio preterintenzionale: «Gabriele non ha toccato Willy e Marco lo ha colpito in un punto che non ha portato alla morte del ragazzo. Per me questa sentenza è un aborto giuridico: sono davvero curioso di capire come motiveranno un omicidio volontario. Leggeremo le motivazioni e poi faremo appello». Per l'avvocato, che quando prese la difesa dei due fu anche minacciato dai soliti hater, sulla decisione della Corte avrebbe influito anche «un forte processo mediatico. I giudici, come ha rivelato anche Franco Coppi, non sono immuni alla pressioni che vengono fuori dall'Aula». In seguito alla enunciazione del dispositivo gli imputati nel gabbiotto di sicurezza avrebbero gridato e imprecato nel tunnel dopo che gli agenti della penitenziaria li hanno portati via. La prima reazione politica alla sentenza è quella della leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni: «Bene! Speriamo che la condanna ora venga confermata nei successivi gradi di giudizio». Poi quella di Giuseppe Conte, capo del Movimento Cinque Stelle: «La famiglia di Willy oggi ha ottenuto giustizia. Questa sentenza non li ripagherà del dolore che soffrono. Sta a noi ora seminare il coraggioso esempio di Willy fra i nostri ragazzi: generosità, solidarietà e contrasto a ogni forma di odio e indifferenza». Ma sta anche a noi riflettere sul perché ancora mettiamo gli imputati nelle gabbie, sul perché alcuni giornalisti usano un linguaggio incivile per commentare questa decisione, sul perché nella nostra società prevalga la vendetta.

profilo' e ' unanime gradimento, sia in ambito associativo che istituzionale'. In altre parole, il comportamento dei due magistrati ha «reciso in partenza qualsiasi vincolo di fiducia che li lega( va) agli altri associati, facendo prevalere la propria ambizione ed il desiderio di affermazione elettorale». Parole molto dure che ben rappresentano il momento attuale. L'autocandidatura delle due toghe milanesi è, infatti, un chiaro segnale di quanto potrà accadere da qui alle prossime settimane, quando appunto scadrà il termine per presentare le candidature. La scelta della giudice Savoia e del pm Fontana potrebbe essere replicata anche da magistrati appartenenti ad altri gruppi associativi, violando in qualche modo gli “ordini di scuderia”.

La vicenda milanese si presta, allora, a diverse riflessioni. La prima riguarda la minore capacità di incidere da parte dei vertici delle correnti. Se anche una corrente strutturata ed organizzata come Area fa fatica un minimo di disciplina interna, vuol dire che il vento è veramente cambiato dopo il Palamaragate. La seconda, invece, riguarda proprio il Csm. L'organo di autogoverno della magistratura, nonostante tutti gli scandali recenti, è e rimane un posto ambitissimo fra i magistrati. Si consideri, tanto per dare qualche dato, che alle ultime elezioni per il suo rinnovo, quelle del 2018, la partecipazione dei votanti era stata di oltre il 90 percento. Si tratta di numeri altissimi che non hanno paragoni con qualsiasi altro tipo di elezione per i rappresentanti di categorie professionali.

Qualcuno potrà obiettare che il Csm è un organo di rilevanza costituzionale e difficilmente può essere paragonato ad un ordine professionale o ad una associazione di categoria. Però è sufficiente fare un confronto con quanto accaduto nelle ultime elezioni amministrative per comprendere quanto siano sentite le elezioni del Csm. Tralasciando il fortissimo astensionismo, i partiti hanno faticato non poco per trovare i candidati da sottoporre al giudizio degli elettori. In alcuni casi, si pensi all'elezione del sindaco di Milano, si è arrivati a rispolverare vecchie glorie come Gabriele Albertini. Nulla, comunque, al confronto con quanto accaduto a Roma, la capitale del Paese, dove il centrodestra è arrivato a candidare un illustre sconosciuto di cui, il giorno dopo le elezioni perse, si sono perse le tracce.

Da questa vigilia di campagna elettorale arriva, quindi, il messaggio che è grande la voglia di partecipare all’attività dell’organo di autogoverno da parte dei magistrati, dal momento che con sempre maggior forza esso andrà ad incidere nella loro vita professionale di tutti i giorni. Meglio esserci nella stanza dei bottoni.