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Il Ministro della Giustizia Carlo Nordio in occasione delle interrogazioni a risposta immediata durante lo svolgimento del question time in Senato a Roma, Giovedì 15 Maggio 2025 (foto Mauro Scrobogna / LaPresse) Minister of Justice Carlo Nordio on the occasion of the immediate response questions during question time in the Senate in Rome, Thursday, May 15 2025 (Photo by Mauro Scrobogna / LaPresse)
Solo il 17 per cento degli istituti penitenziari italiani ha a disposizione uno spazio idoneo per i colloqui intimi, nonostante la Corte Costituzionale abbia sancito da più di un anno il diritto all’affettività in carcere. Su 189 penitenziari censiti, infatti, appena 32 hanno individuato un locale che garantisca riservatezza, dignità e sicurezza per consentire all’interno delle mura un incontro senza controllo visivo. Gli altri 157 hanno ammesso di non possedere alcuna stanza adatta: una fotografia impietosa dell’immobilismo amministrativo, mentre la Consulta e di conseguenza i Tribunali di Sorveglianza chiedono da tempo che quel diritto, riconosciuto come espressione della dignità umana, non resti soltanto una formula sulla carta.
Questa realtà emerge con chiarezza dalla risposta che il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha offerto all’interrogazione parlamentare del 14 febbraio scorso presentata dal deputato Roberto Giachetti di Italia Viva. Nella risposta firmata dal guardasigilli si racconta di gruppi di lavoro, protocolli e progetti pilota, ma al tempo stesso si scopre che gran parte degli impegni restano sospesi e, nonostante le generiche linee guida circolate qualche tempo fa, rimane sospesa la possibilità di ricavare stanze adatte. A dispetto delle promesse e dei monitoraggi, ancora oggi la maggioranza dei detenuti non può esercitare quel diritto alla relazione riconosciuto dalla Consulta.
Meno di un istituto su cinque ha comunicato di poter mettere a disposizione una stanza “idonea”, ossia uno spazio che rispecchi i requisiti minimi di metratura, arredo e sicurezza. Gli edifici più moderni, con sezioni femminili strette in corridoi angusti, non hanno quasi mai spazio libero; quelli più vecchi, costruiti all’inizio del Novecento, spesso sono fatiscenti o organizzati intorno a cortili su cui si affacciano le celle. Non c’è dubbio che, nei corridoi ministeriali, si parli di “enormi diversità strutturali” fra le carceri: un problema reale, soprattutto quando il sovraffollamento ha raggiunto numeri critici. Ma tutto questo non può giustificare il ritardo.
Il 28 marzo 2024, appena quattro giorni dopo la sentenza della Corte costituzionale, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha costituito un gruppo di studio multidisciplinare: al suo interno ha chiamato rappresentanti del ministero, del Garante dei diritti dei detenuti, magistrati di Sorveglianza, psicologi e architetti. Il loro compito era definire le modalità pratiche per rispettare il principio secondo cui, se non ci sono motivazioni concrete legate alla “pericolosità interna” o alle esigenze di ordine e disciplina, non si possono negare i colloqui intimi ai detenuti.
Nel frattempo, come gesto simbolico e pratico, il Dap ha lanciato un progetto pilota chiamato “M.A.MA.”, acronimo di Moduli Affettività e Maternità. L’idea è di ricorrere a un edificio modulare prefabbricato in legno, costruito in gran parte dalla falegnameria interna al carcere di Viterbo, e montato nella sezione femminile di Rebibbia. Quel prototipo consente alle detenute con figli di incontrarli in uno spazio discreto e sicuro, ma finora nessun’altra casa circondariale ha chiesto di replicare l’esperimento. Non perché l’idea non piaccia, ma perché, nel silenzio dei bilanci, nessuno ha stanziato risorse precise.
È in questo contesto di annunci rimasti a metà che assume ancora più valore la vicenda del detenuto di Parma, simbolo di una battaglia che ha attraversato due anni di carte bollate. A marzo 2024, quell’uomo – condannato per associazione mafiosa con metodo camorristico e con pena residua fino al 23 novembre 2026 – aveva chiesto alla direzione di Parma di poter svolgere i colloqui intimi con la moglie, senza l’occhio puntato della polizia penitenziaria. La direzione aveva risposto a inizio aprile, motivando il rifiuto con la “mancanza di spazi adeguati” e rimandando tutto alle future linee guida. Perché, si sosteneva, prima di autorizzare quel colloquio era necessario attendere l’emanazione di un regolamento ministeriale: una motivazione tanto generica da sembrare un rinvio voluto.
Il 7 febbraio 2025, a quasi un anno dalla prima istanza, il Magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia, Elena Bianchi, ha accolto il reclamo proposto dall’avvocata Pina Di Credico. Nella sua ordinanza, Bianchi ha stabilito che la direzione di Parma dovesse individuare entro sessanta giorni un locale dove consentire i colloqui senza controllo visivo, perché mancavano ragioni interne per impedirlo. Il Dap, imbarazzato, ha presentato reclamo al Tribunale di Sorveglianza di Bologna: a detta sua, il detenuto avrebbe rappresentato un pericolo per la sicurezza, giustificando il veto. Ma quelle motivazioni non hanno retto il confronto processuale: in tredici anni di detenzione, non c’era stata alcuna violazione del regolamento interno, e i programmi intramurari di reinserimento avevano dimostrato un reale percorso di distacco dal passato criminale. In più, le note della Dda di Napoli – citate dal Dap – non contenevano alcuna indagine in corso contro l’uomo; tutt’al più facevano riferimento a condanne ormai datate.
Il 28 marzo 2025, il Tribunale di Bologna, presieduto dalla dottoressa Maria Letizia Venturini, ha depositato la sentenza che ha respinto in blocco il reclamo del Dap e della Procura di Reggio Emilia. Accogliendo l’arringa dell’avvocata Di Credico, il principio cardine ribadito in quelle dodici pagine è semplice: la pericolosità “esterna” (i legami con la criminalità fuori dal carcere) non può tradursi in limitazioni dentro alle mura. E il controllo visivo continuo, se non sorretto da un concreto rischio di ordine interno, costituisce una compressione ingiustificata della dignità personale. Non è bastato neppure il richiamo, opposto dal Dap, alla pericolosità sociale del detenuto: perché, ha scritto la giudice, quel concetto – così nebuloso – vale per i permessi premio, non per i colloqui coniugali. Una volta depositata la sentenza, il percorso del detenuto di Parma si è concluso. Forse per il mese di luglio, il carcere di Parma troverà una stanza apposita e per la prima volta dal lontano marzo 2024, quell’uomo potrà avere un rapporto intimo con la sua compagna. Diritto che negli altri Paesi d’Europa è garantito da decenni. Eppure, da noi, soltanto chi può contare su un giudice di Sorveglianza attento e su un avvocato capace riesce a far valere una norma costituzionale.
Le parole del ministro Nordio, se pure sincere, convivono con un’assenza di date precise: non c’è un fondo straordinario approvato in Legge di Bilancio, e l’ispettorato del Dap non ha previsto verifiche in loco per scovare stanze nascoste o ambienti adattabili. Tutto resta sospeso nella nebulosa di promesse ministeriali che non trovano un capitolo di spesa, un cronoprogramma o un decreto specifico. Ecco allora che, a un anno dalla pronuncia della Consulta, l’immagine complessiva resta quella di un Paese che riconosce un diritto costituzionale, ma non lo traduce in stanze concrete. Decine di migliaia di detenuti continuano a incontrare i propri cari in spazi privi di privacy, mentre qualche realtà virtuosa si distingue come eccezione alla regola. A Roma Rebibbia mostra un modulo prefabbricato, realizzato in tempi rapidi e a basso costo; a Parma c’è un locale spuntato quasi per caso, dopo che un magistrato ha inciso come un bisturi su un’amministrazione pigra. Nel resto del Paese, però, molto rimane da fare: i colloqui affettivi non possono continuare a dipendere dalla buona volontà dei direttori o dal lavoro degli avvocati, ma devono essere garantiti come parte integrante della pena rieducativa.
In attesa delle stanze necessarie per garantire il diritto, resta l’urgenza di allineare il dato tecnico con quello concreto: stanze idonee contro istituti sprovvisti e di abbattere il sovraffollamento anche per questo motivo. Perché, come ha scritto la Corte costituzionale, il carcere non può ridursi all’isolamento etereo; e perché, come ha ribadito il Tribunale di Sorveglianza di Bologna, l’affetto non è un optional, ma un presupposto di umanità che neppure una condanna può cancellare.