AMimmo Lucano è riuscito di costruire sogni. S’è aggrappato al cielo e ha imparato a modellare le nuvole. Peccato abbiano punto e sgonfiato quella su cui stava seduto assieme alla sua meravigliosa utopia. E peccato che essa ora rischi d’abbattere un’acqua tempestosa sulla civiltà che Riace spande intorno, contagiando di quella civiltà. Io, alla sua colpevolezza, non ci credo. La mia sensibilità non ci crede, dopo aver messo gli occhi sulla solidarietà concreta, su quell’oasi di fratellanza che è monito ed esempio. L’ho esternato. Mi hanno ribattuto il solito cliché di lasciare che la Giustizia compia il suo corso. Balle.

In Italia, di più in questo lembo di terra su cui si consuma il continente e si abbatte pesante il pregiudizio, la Giustizia ha i passi del cordaio, che intrecciava le corde procedendo a ritroso. Con tempi biblici. Quando sarà resa giustizia, se sarà resa, saranno trascorsi dieci anni, tutti d’inferno, per un gigante abbattuto e disteso nella polvere. E anche dopo, se, come sono convinto, risulterà innocente, gli resteranno addosso le stimmate e le ombre, e il peso del lungo calvario prima di giungere alla verità. Intanto, sarà svanita l’illusione di Riace.

Questo, mentre alla sua estraneità ai fatti contestati credono la maggioranza dei calabresi onesti, non quella corte dei miracoli, capeggiata da presunti giornalisti e da presunti paladini antimafia, che campa con le Procure, ne funge spesso da addetto stampa ed è disposta ad avallare che i bimbi nascono dal pertugio della bocca purché a dirlo sia un magistrato.

È diventato un problema serio, la Giustizia. Se ne è smarrito il senso. In Calabria, peggio, molto peggio. Colpa degli addetti ai lavori ossessionati di carriera e di vanità e incantati dai microfoni – pochi in verità, ché i più operano con vera efficienza e in silenzio e, ahinoi, apposta non fanno opinione e forse apposta non scalano il cielo – non vige la presunzione d’innocenza, piuttosto quella di colpevolezza, con buona pace dei principi della Costituzione, dello Stato di diritto, della Carta dei Diritti Umani. Qui, passo passo, si è giunti a una deriva autoritaria che mina le libertà, persino quella di espressione. E le notizie delittuose hanno grande clamore in uscita – sbandierate a pieni polmoni – e il silenzio in entrata, quando si sgonfiano a bufale, cosa che succede con sconcertante regolarità. Se la categoria sapesse di dover pagare, come succede a ogni altra, per gli errori di negligenza, di superficialità, o di cospirazione, starebbe più accorta alla dignità dei cittadini oltraggiati. Anche le brillanti carriere costruite sui grandi risultati investigativi che poi si riducono a fumo e null’altro dovrebbero essere restituite indietro, assieme alle decorazioni.

Così, succede che quaggiù i cittadini perbene si sentano prigionieri, tra due fuochi, e tra due paure, da un lato il bubbone malefico che è la ’ ndrangheta, dall’altro la Giustizia. Certo, paura diversa quella d’incappare da innocenti nella Giustizia. E tuttavia paura, una paura che toglie credibilità alla Giustizia stessa, e qui la credibilità è arma vincente per uscire dal pantano nel quale ci hanno sprofondati gli “uomini d’onore” che l’onore non sanno dove stia di casa. Perché si rimane incastrati nei suoi ingranaggi farraginosi per un vago sospetto, per un cognome scomodo – anche a condurre vita da meritare, già in terra, che si impianti la pratica per la beatificazione – per un parente in odore di mafia pure se vissuto nelle viscere del secolo trascorso, perché scorto a salutare, a chiacchierare, a prendere un caffè con un presunto malavitoso, magari in un paese con un unico bar, presunto perché te lo ritrovi libero, per la malasorte di stare antipatico a uno che ha titolo di stendere un verbale che ti riguarda. Gli strali della Giustizia con interdizione dalle attività lavorative, udite, udite, persino a ditte che hanno costituito un’ATI ( Associazione Temporanee d’Impresa) con una il cui titolare, un decennio dopo, quando nulla si ha più da spartire, si è ritrovato incriminato per collusione con la ’ ndrangheta. E si finisce schiaffati in prima pagina. Agli arrestati tocca lo spettacolo indecoroso di varcare, in manette e nell’ora di punta, la soglia della Questura tra due angeli custodi, e scendere le scale fino alla volante, via il primo e avanti il secondo, distanziati a beneficio di telecamere – saranno lì per caso? – come le modelle nelle sfilate di moda.

In questi ultimi tempi si è registrata la solitudine dei numeri primi, per parafrasare un romanzo famoso – e ci può stare seppure sia complicato digerire che l’unica garanzia degli onesti sia quella di isolarsi. E l’idea che anche per pitturare la parete di casa bisogna sottostare alla ’ ndrangheta. Ma quando mai? Faccio l’ingegnere da più di 40 anni e non mi ci sono imbattuto. Certo, ho odorato la presenza della malapianta in certi appalti, non nella minuteria però, né mi risulta qualcuno a cui sia stata imposta una ditta per ridipingere gli interni.

Ho trovato su un’interdittiva antimafia una dichiarazione dello Stato secondo cui la provincia reggina necessita di un particolare rigore nei confronti del fenomeno criminale. Quel “particolare rigore” suona male, assomiglia alla conferma che qua si può oltre, che sono legittime le reti a strascico buttate a chi piglia piglia e il rinvio a un secondo tempo per la distinzione tra quanti ci sono incappati da colpevoli e quanti da innocente. Sbagliato, la Giustizia è anche equità, deve essere applicata allo stesso modo in Friuli e in Calabria.

La verità è che vige l’idea che quaggiù siamo tutti coinvolti, per appartenenza o per collusione, per un’omertà che viene intesa connivenza ed è solo paura, legittima peraltro, il cittadino non ha i passi scortati. Siamo stati inchiodati appestati, brutta gente, untori da cui tenersi alla larga. È stata coniata l’equazione calabresi uguale ’ ndranghetisti. Con l’unica eccezione dei combattenti sul fronte ’ ndrangheta. No, sbaglio, sono puri, lindi, rispettabili e fuori da qualsiasi sospetto anche gli elettori della on. Bindi alla primarie del Pd prima e alle politiche dopo, quando la sua candidatura se la contesero tutte le regioni d’Italia e spuntò il privilegio la Calabria, la colonia che lei ricambia amorevole.

Cosa c’entra Mimmo Lucano con questa analisi? C’entra, c’entra. Perché il suo linciaggio è parte del sistema che annaspa, fa acqua, che talvolta sembra regime, smarrisce le regole e i principi di libertà e democrazia.

Ora la speranza è che la vicenda si risolva in tempi brevi, per lui stesso e per il miracolo di Riace. Che, dovesse risultare un abbaglio, la notizia almeno abbia uguale risonanza di quella in uscita. Che, nel caso, chi ha sbagliato ne risponda, altrimenti ne perderà la Giustizia.

Su queste mie esternazioni? È la libertà, bellezza. O non è concessa?