L’ultimo suicidio è di oggi: un uomo di 49 anni è morto nella sua cella a Bergamo, dopo aver inalato il gas del fornelletto in dotazione. Giovedì, invece, Giovanni Carbone si è tolto la vita a Lanciano. Un gesto annunciato, dopo aver chiarito al gip che il suo intento era rivolgere l’arma contro se stesso, dopo aver ucciso la compagna.

È un elenco che si allunga costantemente quello dei morti in carcere. Un dramma che sembra non interessare a nessuno, perché l’unica soluzione, nell’agenda politica, sembra essere quella di costruire nuove carceri. E data la «fine dell’emergenza Covid», come ha spiegato il ministro della Giustizia Carlo Nordio in Commissione Giustizia al Senato, dal 31 dicembre quasi 700 detenuti torneranno dietro le sbarre, aggravando ulteriormente il già cronico sovraffollamento. «Misura di pura coerenza», ha chiarito il guardasigilli.

Ed è a lui, in particolare, e al governo intero che si rivolgono ora la presidente del Consiglio nazionale forense Maria Masi e il Garante delle persone private della libertà Mauro Palma. Con una lettera che chiede un ricorso più ampio alle pene alternative, tanto da invocare, seppur implicitamente, l’attuazione della vecchia riforma Orlando, finita in un cassetto per ragioni elettorali ancor prima di vedere la luce.

«L’auspicio – afferma Masi - è che tutte le componenti istituzionali, con il necessario coinvolgimento dell’avvocatura istituzionale e associativa, nonché con il contributo ineliminabile del Garante nazionale, avviino una riflessione seria, che, attraverso interventi normativi organici e funzionali, garantiscano che le condizioni della detenzione siano ispirate al principio di umanità e assicurino che l’esecuzione della pena avvenga in maniera conforme al principio costituzionale della rieducazione del condannato».

I primi obiettivi sono migliori condizioni di vita in carcere, più personale e l’introduzione di esperti per seguire le condizioni di disagio e fragilità, l’inclusione delle persone detenute nel tessuto sociale anche attraverso l’aumento di istituti di restrizione a custodia attenuata; la riabilitazione e la risocializzazione di chi sconta una pena anche attraverso la promozione dell’accesso al diritto allo studio e l’offerta di opportunità concrete di lavoro; la riduzione dei limiti all’accesso alle misure alternative. E solo dopo, dunque, si potrà pensare a nuovi istituti penitenziari, che nell’idea di Nordio potrebbero essere allestiti nelle caserme dismesse, idonee, da un punto di vista strutturale, ad ospitare dei detenuti.

«Questo non significa affatto che stiamo diventando carcerocentrici - ha assicurato il ministro -. Abbiamo trovato una fortissima sensibilità verso le misure alternative al carcere quanto meno per i tossicodipendenti», che costituiscono il 40 per cento dei detenuti. «La pena non deve essere necessariamente carceraria», ha aggiunto. Ma le soluzioni sul piatto, al momento, sono solo strutturali, pur annunciando la volontà di aprire un confronto tra la politica (opposizione compresa), l’avvocatura e la magistratura.

Masi e Palma, per il momento, vanno più sul concreto. Con un occhio alla legge di Bilancio, che prevede al momento tagli ai fondi destinati all’amministrazione penitenziaria, tagli che chiedono alla politica di rivedere. Anche perché le risorse economiche, ricordano, «sono già insufficienti per le attività rieducative e per un accettabile livello di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti». Secondo Palma, «lo stato della detenzione nel nostro Paese, la cui criticità è segnalata non soltanto dalla densità della popolazione detenuta ma anche dal numero degli atti di suicidio, ad oggi 82, che si sono verificati nel corso di quest’anno, richiede una serie di interventi urgenti e indifferibili che non possono attendere la realizzazione di progetti di natura edilizia, pur necessari in una prospettiva di prossimo futuro». Progetti che, in ogni caso, dovranno rispettare gli standard dettati dalla Cedu e dagli organi sovranazionali, avvertono Masi e Palma, a partire dal «principio di territorialità dell’esecuzione della pena, della distinzione tra l’esecuzione di misure cautelari, pene brevi e pene superiori ai cinque anni di reclusione», che possono essere raggiunti semplificando le procedure per le decisioni giudiziarie, rivedendo modalità e presupposti di accesso alle misure alternative e le preclusioni all'accesso ai benefici penitenziari; aumentando le opportunità di lavoro retribuito dentro e fuori dal carcere e le attività di volontariato; intervenendo, con misure specifiche, a tutela delle donne recluse e delle detenute madri; riducendo la custodia cautelare - da utilizzare come extrema ratio e nei casi di reati gravi - e «abbandonando la logica “carcerocentrica”», concludono, limitando il carcere «ai soli casi di effettiva pericolosità sociale».