«C’è il rischio di una sfiducia sociale nei confronti della magistratura. Le dico anche che in passato la politica ha provato a incoraggiare una simile sfiducia. E ci sono pure gli errori», ammette Alcide Maritati, gip del Tribunale di Lecce e componente del direttivo Anm per il gruppo di Area, «non avrebbe senso nasconderlo, come dicono anche alcune vicende degli ultimi giorni: ma il problema di noi magistrati sono le risorse, quelle con cui siamo messi in condizioni di lavorare. E se sono scarse l’errore è inevitabilmente più facile a verificarsi. Ecco perché dovrebbe esserci un atteggiamento costruttivo, e soprattutto sinergico e coordinato con l’avvocatura». Il dottor Maritati, figlio dell’ex senatore pd Alberto, è uno di quei magistrati che dedicano una buona parte del tempo libero all’attività associativa. Che vuol dire anche impegnarsi nei Consigli giudiziari, cioè nell’autogoverno locale, e vedere i problemi in modo molto ravvicinato. E osservata bene, la situazione fa emergere quasi sempre la necessità di un fronte comune tra giudici e ordine forense.

Partiamo dalla sfiducia verso i giudici: è l’altra faccia del processo mediatico?

È un fatto che è comparso dopo la stagione di Mani pulite. Il controllo di legalità esercitato dai magistrati rispetto alla politica ha innescato una reazione. Una parte dell’informazione, non sempre libera direi, ha cercato di individuare i punti deboli nell’esercizio della giurisdizione per incoraggiare quella sfiducia. Ma si è trascurato un particolare: la magistratura non ha il potere di autorganizzarsi. Il Parlamento dispone di tutti i mezzi che ritiene necessari, a noi deve attribuirli il governo. E se le risor- se, innanzitutto il personale, sono scarse, l’imperfezione o l’errore sono dietro l’angolo.

È stato dunque il centrodestra a incrinare la fiducia in voi giudici?

Anche il centrosinistra a volte ha mostrato di non gradire un certo modo libero e indipendente di amministrare la giurisdizione.

Ora c’è un problema nuovo: l’opinione pubblica va a caccia di colpevoli. E a volte anche un giudice può “prestarsi”.

L’opinione pubblica chiede il rispetto dei patti costituzionali. Ma la macchina della giustizia è in affanno. A volte il carico di lavoro è intollerabile, gli amministrativi chiedono di essere assegnati alle funzioni meno gravose, per esempio alle Procure generali, perché anche loro sono al limite. Non voglio però nascondere la gravità degli ultimi casi. Anche se in quello di Torino, la violenza su minore finita in prescrizione, va detto che non sono trascorsi vent’anni: la notizia di reato è emersa nel 2006, l’anno dopo il primo grado si era già chiuso: esemplare. Quello che è successo dopo, i 9 anni per l’Appello, non è tollerabile né giustificabile. E la sezione locale di Area lo ha detto. Si può solo chiedere scusa e accertare cosa non ha funzionato.

Ma ci può essere un disarmo tra magistratura e politica?

Non c’è alcuna ragione di alimentare uno scontro che non trova più ragioni di tipo storico. Non si può dire che l’attuale governo e il precedente siano stati sordi alle esigenze della magistratura: non c’è stata corrispondenza su tutto, evidentemente, e in casi come la proroga del trattenimento in servizio riservata solo ad alcuni magistrati si è prodotta persino una lesione dell’indipendenza. Ma non condivido un confronto basato sul rinfacciare i torti più o meno recenti di una classe politica piuttosto che di un’altra.

Non sempre dunque ha condiviso gli attacchi del presidente Davigo, diciamo.

Guardi, per ottenere i risultati si deve anche esercitare una pressione, al pari di altre categorie. Noi siano chiamati a farlo in accordo con il nostro profilo costituzionale elevato.

Il confronto deve avvenire anche con l’avvocatura?

Sono convinto che si debba trovare una linea d’incontro con l’avvocatura, su tutto quanto riguarda il confronto con l’istituzione governativa. Ci dovremmo sentire sullo stesso fronte, non credo sia arduo individuare i punti di condivisione: nei corridoi dei tribunali magistrati e avvocati si parlano e verificano di avere molti problemi in comune. Noi non riusciamo a esercitare al meglio le funzioni, la classe forense non riesce a ottenere i risultati attesi dai cittadini che è chiamata a difendere.

La condivisione può portare anche a una partecipazione con diritto di voto degli avvocati nei Consigli giudiziari estesa alle valutazioni di professionalità dei magistrati?

Faccio una premessa. Sono relativamente giovane ma ho sempre dialogato con l’avvocatura locale, sono stato sempre d’accordo a rafforzarne la partecipazione nei Consigli giudiziari e l’ho sollecitata da quando sono stato eletto nella sezione distrettuale di Area a Lecce. Va ricordato come già oggi la legge preveda che il Consiglio giudiziario, in vista delle pratiche di valutazione, inviti gli Ordini degli avvocati a fornire notizie utili che possano infuire sui giudizi: ebbene, questa possibilità non viene utilizzata praticamente mai. Non so se per timore reverenziale o per altri motivi. Personalmente sono aperto al confronto e a trovare soluzioni nuove, ma non posso dirlo né a nome dell’Anm né della stessa Area, dove il dibattito a riguardo è vivace. Aggiungo solo che forse va chiarito quale sia effettivamente la soluzione pratica più funzionale.

Nella magistratura associata ci sono ancora resistenze forti.

Si teme che soprattutto in alcune zone del Paese possano esserci condizionamenti e vendette nei confronti di singoli magistrati. Non sono d’accordo, personalmente: nel direttivo Anm l’ho detto. Noi di Area ritenevamo che l’Associazione dovesse aprirsi a un coordinamento con gli avvocati e con i sindacati degli amministrativi. A breve la presidenza toccherà al nostro gruppo e ci impegneremo per rimettere questo tema al centro dell’agenda.