Marcello Dell’Utri non deve stare in carcere per una questione di «giustizia». Il senatore Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani, è uno dei pochi esponenti politici a non girare attorno alle parole sul caso.

Dell’Utri continua il suo sciopero della fame e dice di non volere la grazia. Condivide questo approccio radicale dell’ex senatore di Forza Italia?

Sì, lo condivido. E per un motivo essenziale: ritengo la grazia un importante istituto e non ne svaluto il significato. La grazia è parte dell’amministrazione della giustizia, non è una sua negazione, anzi. Una concezione equilibrata e ragionevole, ispirata al pensiero di Beccaria, prevede sia la pena che la sua sospensione, sia la severità della sanzione la rinuncia a essa, sia il rigore che l’indulgenza. E sia la certezza della pena che l’amnistia e l’indulto. Escludere dalla concezione e dalla pratica della pena la grazia o l’indulto significa darne una interpretazione unilaterale, rigida, concentrata sulla fissità e sull’afflizione: in altre parole, un’idea autoritaria e immobile della giustizia. Ma qui siamo in presenza di altro.

Dunque, non è corretto ragionare sulla grazia perché la detenzione di Dell’Utri è ingiusta?

Esattamente. In questo caso, a mio avviso, siamo di fronte a una violazione e ritengo opportuno richiedere il rispetto della legge e non un atto di clemenza. Il ripristino del rispetto della norma deve precedere l’eventuale e successiva richiesta della grazia.

A stabilire la permanenza in carcere di Dell’Utri è stato un Tribunale. Come si può definire violazione la decisione di un’aula di giustizia?

Ma l’amministrazione della giustizia è fatta di varie fasi e procedure. Rispetto alla esecuzione della pena - di questo parliamo - esiste una varietà di forme per la sua applicazione. E tra queste, in presenza di precise circostanze, è previsto il differimento attraverso la misura della detenzione domiciliare. È quanto prevede la legge in determinate condizioni, che ricorrono nel caso di Dell’Utri.

Chi si oppone alla scarcerazione del cofondatore di Forza Italia utilizza spesso un argomento: perché si chiede un trattamento di favore per Dell’Utri e non si spende mai una parola per tutti gli altri detenuti “anonimi”? Ci si batte solo per i potenti?

È da decenni che sento muovere questa critica. I garantisti intransigenti, alla cui schiera mi pregio di appartenere, sostengono che si debba adottare per tutti i detenuti lo stesso trattamento che oggi chiediamo per Dell’Utri, come ha affermato Rita Bernardini. Ma questa ragionevolissima impostazione, dalla quale nessuno può rimproverarmi di essermi mai discostato, dopo tanto tempo mi sta stretta. Perché la saggezza di questa linea rischia ogni volta di sortire un effetto esattamente opposto a quello sperato. Insomma, finisce che né Dell’Utri né gli altri detenuti escano dal carcere. Dall’altra parte, se fossimo tutti in buona fede, come io cerco di essere, dovremmo riconoscere che grazie a Dell’Utri, o a Enzo Tortora, o a qualsiasi altro nome noto si è ottenuta un po’ di attenzione nei confronti della moltitudine degli ignoti, quelli senza nome e senza notorietà.

L’imminenza della campagna elettorale impedisce un ragionamento in “buona fede”?

Mi sembra, piuttosto, che quell’ostacolo si ritrovi durante tutto l’anno e durante tutti gli anni.

Pochi giorni fa Pirluigi Bersani ha dichiarato: «Che sia Dell’Utri, che sia Pincopallino, se uno è veramente nelle condizioni che vengono descritte non può essere lasciato in prigione. Esiste un concetto che si chiama umanità». La stupisce questa posizione di uno dei leader di Liberi e Uguali?

No, non mi stupisce affatto. Bersani ha mostrato spesso connotati non ortodossi, differenziandosi da quella che resta, in gran parte, la tradizionale culturale di sinistra che, come noto, è prevalentemente sostanzialista e antigarantista.

La discesa in campo di un ex magistrato antimafia come Piero Grasso potrebbe essere un ulteriore passo indietro sul garantismo a sinistra?

No, Grasso non appartiene a quella componente autoritaria della magistratura. Ha un’idea certamente molto severa della giustizia, ma in questi cinque anni di legislatura, e per quanto mi ricordi anche prima, si è sottratto all’orientamento antigarantista di tanta parte dei suoi colleghi. Io non ho aderito alla sua nuova formazione, ma riconosco che, da Presidente del Senato, ha fatto alcuni gesti interessanti. Ne ricordo uno che mi è sembrato davvero manifestazione di grande indipendenza: mi incaricò, pensate un po’, di rappresentare ufficialmente il Senato, in occasione della prima manifestazione nazionale di sinti e rom a Bologna.

È meno garantista l’approccio dei suoi compagni di strada?

Può sembrare un paradosso, ma direi di sì.