Oggi la Corte Europea dei diritti umani pubblicherà la sentenza sul ricorso della statunitense Amanda Knox, la quale ha accusato l’Italia di aver violato il diritto europeo sull’equo processo e di aver subito maltrattamenti da parte della polizia durante l’interrogatorio quando era imputata insieme a Raffaele Sollecito per l’omicidio della sua coinquilina Meredith Kercher. Il 27 marzo 2015 la quinta sezione penale della Corte suprema di Cassazione annulò senza rinvio le condanne a Raffaele Sollecito e Amanda Knox, assolvendoli per non aver commesso il fatto, affermando la mancanza di prove certe e la presenza di numerosi errori nelle indagini, e ponendo così fine al caso giudiziario. Nel 2016 la CEDU ha ritenuto valido il dossier presentato dai legali della Knox ed ha comunicato il ricorso al governo italiano affinché possa difendersi. Ricordiamo che nel gennaio del medesimo anno, il tribunale di Firenze aveva assolto con formula piena la Knox dall’accusa di avere calunniato alcuni agenti della squadra mobile di Perugia che indagavano sull’omicidio di Meredith. In particolare la Knox era accusata di calunnia per avere sostenuto di essere stata “forzata” dagli investigatori a dire che era stata nella casa dell’omicidio insieme a Patrick Lumumba, che fu coinvolto nell’inchiesta proprio a causa delle frasi dell’americana e poi riconosciuto estraneo alla vicenda. Il procedimento avviato dalla procura di Perugia era stato poi trasmesso a Firenze in quanto tra le persone offese dal presunto reato ci sarebbe stato anche l’ex pm Giuliano Mignini, titolare dell’indagine. Il pm di Firenze aveva chiesto per la Knox una condanna a due anni e otto mesi di reclusione. La sentenza di assoluzione però parla chiaro.

Nelle motivazioni, il giudice ha scritto che la Knox fece il nome di Lumumba agli agenti perché «dando quel nome in pasto a coloro che la stavano interrogando così duramente, sperava di porre fine a quella pressione». Il giudice ha ritenuto che le parole della studentessa di Seattle abbiano rappresentato «la narrazione confusa di un sogno, sia pure macabro» e «non la descrizione di una vicenda davvero accaduta». Per il tribunale questo conferma lo stato in cui si trovava Amanda Knox in quel momento ed esclude che la sua finalità potesse essere di tacere il nome dell’effettivo autore del delitto. Il giudice di Firenze ha anche parlato in tale ambito di indagini caratterizzate da «numerose irritualità procedurali» e dalla durata ossessiva degli interrogatori. Sempre secondo il tribunale, il contesto nel quale sono state rese le dichiarazioni della Knox «era chiaramente caratterizzato da una condizioni psicologica divenuta» per lei «davvero un peso insopportabile». È quindi «comprensibile – si legge nelle motivazioni – che cedendo alla pressione e alla stanchezza abbia sperato di mettere fine a quella situazione, dando a coloro che la stavano interrogando quello che in fondo volevano sentire dire: un nome, un assassino».

Cosa ha denunciato nel ricorso alla CEDU Amanda? Ha affermato che il suo diritto a un equo processo è stato violato perché «non è stata informata in tempi brevi in una lingua a lei comprensibile della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico». Inoltre ha affermato di non essere stata assistita da un legale durante gli interrogatori del 6 novembre 2007. Infine ha ribadito di non essere stata assistita da un interprete professionale e indipendente nel corso degli interrogatori e che l’agente di polizia che l’ha assistita durante gli interrogatori del 6 novembre 2007 ha fatto le funzioni di mediatore «suggerendo così delle ipotesi su come si erano svolti i fatti». Amanda Knox ha invocato inoltre la violazione dell&# 39; articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani affermando che «gli scappellotti» che avrebbe ricevuto alla testa hanno costituito un trattamento inumano e degradante. Oggi conosceremo il responso.