Il Pd in fondo ha sempre creduto poco alla legge sulla candidabilità dei magistrati. «Quelli oggi in Parlamento sono 5 in tutto, contro 110 professori e 100 avvocati», ripete il capogruppo dem in commissione Giustizia Walter Verini. E infatti il testo è stato lasciato in stand– by a Montecitorio per ben tre anni. Ma ora che è stato risfoderato a fatica, più che altro per la campagna mediatica innescata dal caso Emiliano, il provvedimento rischia di diventare un caso in vista delle prossime Politiche. Addirittura un termometro di come potrebbe affrontare la sfida nelle urne il partito che tutti i sondaggi danno in vantaggio: il Movimento cinquestelle. Da una scorsa agli emendamenti che oggi Montecitorio metterà ai voti, si è colpiti infatti da almeno un paio di richieste di modifica avanzate dai grillini.

Tutte e due, a volerle leggere con malizia, fanno pensare a una volontà di schierare un discreto numero di magistrati nelle liste per le prossi- me elezioni. E a voler fare ricorso alle toghe magari per altri incarichi, come quelli di governo o di assessore comunale.

Si tratta di due emendamenti che neutralizzerebbero in tutto o in parte gli effetti della legge, almeno nell’immediato. La prima, infatti, posticiperebbe l’entrata in vigore delle nuove norme a 6 mesi dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Una clausola davvero singolare: vorrebbe dire rendere inefficaci, per le prossime elezioni, i paletti previsti dal testo. L’altra modifica “pesante” preparata dai cinquestelle in vista dell’esame di oggi pomeriggio punta a eliminare una norma introdotta proprio dalla commissione Giustizia di Montecitorio e che non ricorreva nella versione approvata a Palazzo Madama: il limite, previsto all’articolo 1 del provvedimento, per quei giudici ( o pm) già usciti dai ranghi della magistratura. Un filtro per chi è in pensione o si è dimesso. Il testo approvato nei giorni scorsi in commissione prescrive che anche in questi casi non si possa essere candidati nello stesso territorio in cui si è prestato servizio negli ultimi 5 anni. Il terzo comma dell’articolo 1 infatti esclude sì il vincolo territoriale per gli ex giudici, ma a condizione che abbiano «cessato di appartenere ai rispettivi ordini giudiziari da almeno due anni». A Palazzo Madama quell’ «almeno due anni» non c’era: erano dunque del tutto esclusi i limiti di candidabilità per chiunque fosse andato in pensione o si fosse dimesso anche pochi mesi prima. Ebbene, il Movimento cinquestelle vuole ripristinare la versione licenziata dal Senato tre anni fa. Propone appunto che i limiti territoriali di candidabilità scompaiano per tutti i magistrati già pensionati e per tutti quelli che si sono dimessi: resterebbe solo il vincolo dell’aspettativa da chiedere almeno 6 mesi prima dell’inserimento in lista.

Difficile escludere che il partito di Grillo voglia lasciarsi la possibilità di schierare alle Politiche qualche ex toga magari incattivita col Pd per non aver ottenuto la proroga del trattenimento in servizio. Va poi considerato che i limiti di riguarderebbero un’ampia schiera di soggetti: candidati all’Europarlamento, alla Camera e al Senato, ma anche nelle assise locali o alle cariche di sindaco o presidente di Regione. Paletti estesi anche a chi dovesse essere indicato come assessore comunale. E qui entra in gioco una certa tendenza degli ultimi anni ad affidare la carica di assessore alla Legalità, per esempio, a magistrati nel pieno della loro carriera. Il caso più eclatante è quello di Sabella a Roma, altri ce ne sono stati e altri probabilmente i cinquestelle si preparavano a crearne. Ma se passasse la legge votata in commissione Giiustizia e ora arrivata nell’Aula di Montecitorio, non potrebbero più farlo.

Ma è il primo dei due emendamenti, naturalmente, che taglierebbe la testa al toro: entrata in vigore dell’intera proposta di legge posticipata di ben 6 mesi. Una richiesta di modifica che ha del clamoroso. Qui i sospetti si allargano: il Movimento parrebbe davvero intenzionato a riempire le liste con magistrati tuttora in attività. Certo trovarne in numero così alto che siano disposti a scendere in campo sarebbe difficile. Ma intanto è chiaro che la proposta dei cinquestelle avrebbe un effetto chiarissimo: far entrare in vigore la legge solo dopo le prossime elezioni. Il calcolo è semplice: entro questa settimana l’Aula della Camera potrebbe anche licenziare il testo, ma poi bisognerebbe attendere l’estate, o addirittura il rientro dalle vacanze, perché il Senato ci possa rimetterci le mani. In coda, nella commissione Giustizia di Palazzo Madama, ci sono già la riforma del processo civile e quella del diritto fallimentare, solo per restare nel campo della giustizia. Basterebbe lasciar passare giugno e i giochi sarebbero chiusi: legge valida ma a partire da aprile 2018. A quel punto qualche pm di grande notorietà potrebbe essere schierato come indipendente nelle liste di Grillo senza neppure correre il rischio di doversi ricollocare, a fine mandato, al di fuori del distretto in cui oggi svolge le funzioni. Con l’approvazione a scoppio ritardato, ovviamente, resterebbero per il momento inefficaci anche le altre misure della proposta di legge, quelle che vanno dall’articolo 5 all’articolo 9, e che regolano appunto il «ricollocamento in ruolo». Oltre ai limiti “geografici” ci sono tra l’altro quelli relativi al vincolo di esercitare solo funzioni collegiali o all’impossibilità di assumere incarichi direttivi. Un bello stop alla carriera dei magistrati col pallino della politica. I cinquestelle vogliono congelare tutto. Temono, evidentemente, che il loro sogno di una società fondata sulla giustizia penale finirebbe per restare irrealizzato ancora un bel po’.