«Cerchiamo di non costruire uno scenario di cartongesso. E di non sottrarci alle responsabilità. Lo Stato non può scaricare sui cittadini le inefficienze della giustizia, casomai deve finalmente assicurare i principi di ragionevole prevedibilità dell’esito e di ragionevole durata del processo, previsti dalla Costituzione». Giovanni Maria Flick consegna un messaggio non esattamente prenatalizio.

A proposito del Recovery plan e degli impegni prospettati dal governo sulla giustizia, il presidente emerito della Corte costituzionale non esita a guastare la serenità dell’esecutivo. «Nel documento sull’impiego delle risorse europee, dei famosi 209 miliardi, mi sembra vi siano troppe affermazioni segnate dall’ipocrisia. Si concentra l’attenzione sulla giustizia civile, ma così si rischia di dimenticare che anche il processo penale continua a soffrire di problemi enormi. Innanzitutto», dice Flick, «a soffrire è il principio di legalità, che consiste nella effettiva conoscibilità della legge: ebbene, tra interpretazioni creatrici dei giudici e abrasione della legge stessa da parte del governo coi dpcm, a me pare sia proprio lo Stato a mettere in crisi il principio di legalità. Il richiamo a quest’ultimo dovrebbe essere scontato ed estraneo a un’analisi sulla ripartizione dei fondi Ue. Ma quel principio è la premessa per una riforma di sistema, come quella preannunzia dal governo sulla giustizia. Che senso ha rassicurare l’Unione europea sull’efficienza prossima ventura del sistema giudiziario attraverso tre o quattro disegni di legge che giacciono nelle aule del Parlamento e chissà quando vedranno la luce? E ancora, perché tra i propositi dichiarati della riforma civile c’è addirittura la minaccia di un’amministrazione che si costituisce contro chi risultasse responsabile di lite temeraria? Si pretende che il cittadino risarcisca i danni allo Stato: ma non è lo Stato che dovrebbe rimediare ai danni finora procurati al cittadino?».

Due giorni fa il premier Giuseppe Conte ha confermato che uno dei due pilastri su cui si regge il Recovery plan è la giustizia, l’altro è la semplificazione: secondo lei, dunque, il gigante ha i piedi d’argilla?

Il premier ha ragione, ma proprio per questo in primo luogo non è possibile presentare come adempimenti già avviati, rispetto alle raccomandazioni Ue, alcuni ddl che viaggiano pigramente, e in assenza di intese, nelle aule parlamentari. Secondo: non è sopportabile l’idea che uno dei trofei innalzati, la prescrizione, sia offerto come rimedio alla presunta slealtà degli avvocati e dei loro assistiti, responsabili di aver finora snobbato i riti alternativi perché attratti dalla prospettiva del reato estinto. Terzo: le sole due mission con cui il governo dichiara di voler impiegare, nel campo della giustizia, il Recovery fund in sostanza sono da una parte la “pioggia di avventizi”, cioè tirocinanti, contratti a termine e giudici non professionali, dall’altra l’edilizia, cioè nuove carceri, millantate come risolutrici della recidiva ed elementi di trattamento per fronteggiare il dramma dei penitenziari sovraffolati. Tra l’altro mi sembra incoerente la convivenza coatta fra i detenuti in contrasto con la prescrizione di “distanziamento sociale”, talvolta penalmente sanzionata, per chi sta fuori dal carcere Mi pare un modo distorsivo e, ripeto, minacciato dal rischio dell’ipocrisia, di presentare le cose.

Lei da dove partirebbe?

Innanzitutto eviterei di spostare i riflettori solo sul settore civile come se il penale fosse sistemato dalla nuova prescrizione. Vogliamo partire dalle raccomandazioni dell’Europa? Bene, io credo che i nostri partners si aspettino dall’albero della giustizia due frutti: il ripristino del principio di legalità e la ragionevole durata dei processi.

Il principio di legalità non è già cosa certa, in Italia?

Spero che la domanda sottenda un filo d’ironia. La Convenzione europea impone che la legge sia accessibile. E come si fa, oggi in Italia, a considerarla tale?

Le leggi non sono chiare?

Sono sempre più spesso superate dall’interpretazione creatrice del singolo giudice. Il caso specifico è regolato dalla sentenza con un’interpretazione sempre meno “ragionevolmente prevedibile”. La Corte costituzionale non manca di scegliere a volte strade impegnative, nella cosiddetta dialettica multilevel con le Corti internazionali. Il contrasto regna sovrano nel rapporto fra Stato e Regioni. Ma c’è un altro fenomeno che provoca in certi casi una vera e propria morte della legge.

Addirittura?

Cosa avviene nel momento in cui il governo si sostituisce alla legge attraverso i dpcm? Può davvero bastare che ogni tanto piombi, a copertura di un simile, incostituzionale strumento, qualche decreto legge blindato dalla fiducia?

Cioè, lei dice che è lo Stato a portar via i frutti dell’albero della giustizia?

Dico che si dovrebbe avere attenzione ai meccanismi regolatori di base, piuttosto che dare per fatte riforme virtuali. Prima di tutto si dovrebbe assicurare consistenza al principio della nomofilachia. L’uniformità delle interpretazioni, rimessa alle pronunce della Cassazione, pare debba riguardare solo i cieli dei massimi sistemi, dei grandi principi. E invece ci dovrebbe essere uniformità e dunque prevedibilità in tutta la gestione del processo: anche nei comportamenti del pubblico ministero.

E come ci si può arrivare?

Serve un più serrato controllo del giudice, e dei vertici della magistratura inquirente, sul collega pm. Guardi che quanto dico è l’eco di un discorso molto sensato fatto pochi giorni fa dal procuratore generale della Cassazione.

Cioè dal vertice della massima magistratura inquirente.

Appunto: è stato lui ad auspicare maggiore uniformità, e dunque una vera nomofilachia, anche nelle decisioni relative alle misure cautelari.

Servirebbero giudici abbastanza autonomi dai pm: secondo lei ci sono?

La domanda sembra alludere alla scorciatoia della separazione delle carriere: che però rischia di diventare un monumento innalzato nel nulla. Se adesso non ci sono giudici abbastanza autonomi da ricondurre a uniformità e ragionevolezza le eventuali azioni dei pm, per esempio nelle misure cautelari, vorrà dire che interverranno i giudici del grado superiore. Però non basta cambiare l’etichetta, una cosa deve essere chiara: se non c’è ragionevole certezza nell’interpretazione della legge, non funziona nulla. Né il penale né il civile. Il principio di legalità è affermato, nel primo caso, all’articolo 25 della Costituzione. In materia civile il cardine dell’articolo 24, vale a dire il diritto ad agire in giudizio a tutela dei propri diritti e interessi legittimi, è attuato se la legge è conoscibile. Se io non posso conoscere ragionevolmente il significato della legge, della sua osservanza o trasgressione, se non posso ragionevolmente prevedere l’esito di un processo, sulla base di che cosa posso agire in giudizio?

La magistratura potrebbe replicare che una dittatura della nomofilachia pregiudicherebbe l’autonomia del singolo giudice.

Il giudice non deve essere vincolato, però se esiste un orientamento consolidato sarebbe giusto che se discostasse con una congrua motivazione, non secondo l’anarchia dell’interpretazione creatrice.

Di quanto lei dice non c’è traccia nel Recovery plan.

E non dovrebbe neppure esserci, quella traccia, in un documento destinato a dettare i criteri per l’utilizzo dei fondi. Ma dovrebbe esserci prima come premessa del sistema e della sua organizzazione. La sola traccia visibile, nel Recovery plan, finisce per essere lo scenario di cartongesso sopra evocato: disegni di legge di incerto destino, reclutamento di avventizi per lo smaltimento dell’arretrato. Le do una notizia: più che rimuovere l’arretrato, è il caso di evitare il suo accumularsi. Da ministro della Giustizia provai a offrire il contributo più qualificato possibile, vale a dire l’apporto dei notai. Ma non si fece in tempo a smaltire l’arretrato che già se n’era formato di nuovo.

L’altro frutto atteso dall’Europa è la ragionevole durata.

Abbiamo dalla nostra l’eccellente definizione dell’articolo 111, che probabilmente supera per efficacia la stessa Convenzione europea, in cui si sancisce solo il diritto a vedere fissata l’udienza il prima possibile. La nostra Carta dice invece con chiarezza che è onere dello Stato, e non certo delle parti, assicurare che un giudizio si definisca in tempi non abnormi. Certo, serve un compromesso. Da una parte ci vogliono strumenti che consentano di pervenire nel modo più celere possibile alla conclusione del giudizio, dall’altro tutto va contemperato con le garanzie difensive. Ma qui anziché al compromesso si assiste alla millanteria secondo cui tutto sarebbe risolto dalla nuova prescrizione, giacché adesso si opterà assai più per i riti alternativi, una volta svanita la prospettiva di veder estinto il reato. Mi pare un’altra espressione di quell’orizzonte un po’ ipocrita. Anzi, sembra che lo Stato si sia trasformato in un cacciatore di animali.

Scusi presidente, perché cacciatore di animali? A chi si riferisce?

Alla ricerca del capro espiatorio, che nel processo penale sono chiaramente l’imputato e la sua difesa, e all’introduzione del cavallo di Troia. Qui spero sia comprensibile il riferimento alla nuova disciplina delle intercettazioni: ma le pare possibile che un cellulare debba trasformarsi in una videocamera che dà accesso a qualsiasi cosa io dica o faccia? E le pare che dietro strumenti del genere s’intraveda uno Stato pronto ad assumersi la responsabilità della certezza e della ragionevole durata?

Lei prima ha parlato di avventizi della giustizia: perché?

Si torna a ipotizzare le meravigliose sorti e progressive per l’ufficio del processo, per la massiccia immissione di tirocinanti, di giudici non professionali e di personale assunto a termine. Certo, servono amministrativi e magistrati. Ma servono prima ancora strumenti efficaci e, come già detto, una rigorosa attenzione al principio di legalità da parte di tutti: della magistratura e in generale dello Stato. D’altronde ci sono altri segnali poco incoraggianti, a comporre lo scenario di cartongesso.

A cos’altro si riferisce?

All’impegno per la digitalizzazione. Presupposto indispensabile, intendiamoci: ma sono lustri, ormai, che si annuncia la svolta digitale nel processo. Perché si promette all’Europa il realizzarsi di una svolta telematica che dovrebbe già essere compiuta? Non c’è anche qui un’alterazione della realtà? Ho detto dell’edilizia penitenziaria come mission del Recovery plan: davvero si pensa che costruire più carceri significhi contrastare la recidiva dei reati, come pure si legge nel documento del governo? Stento a crederci. Come mi sembra curioso che per il contrasto della corruzione serva un nuovo organismo, parallelo e dunque sostitutivo dell’Anac: immagino che chi ha guidato l’authority nei primi cinque anni di vita non sia entusiasta della novità. Rispetto all’obiettivo di tutelare le imprese che vantano crediti si dovrebbe riconsiderare, a mio giudizio, l’istituzione di Tribunali preposti solo a tale settore, con il contributo degli esperti così come avviene nella giustizia minorile. E visto che di processo civile si parla, proprio non riesco a ignorare quell’ipotesi dichiarata negli impegni assunti sulla giustizia dal documento del governo: l’amministrazione che si costituisce contro il cittadino ritenuto responsabile di aver intrapreso una lite temeraria. Si pretende di far pagare alle parti la mancata efficienza della giustizia. Hai avuto torto, adesso paghi anche i danni allo Stato. Mi sembra troppo, visti i danni che finora proprio lo Stato ha procurato ai cittadini.

Insomma, gli impegni sulla giustizia andrebbero rivisti del tutto.

Non si può certo negare che da un lato vi è una maggioranza di magistrati i quali svolgono con capacità professionalita e, quando occorre, riserbo il loro dovere. Dall’altro, che le colpe della disorganizzazione vanno attribuite purtroppo a una tradizione di disinteresse per la giustizia da parte della politica passata e non solo presente. Ma il risultato è quello che vediamo nella quotidianità. E rende possibile il tentativo della riforma di sistema che l’Europa, i mercati e prima ancora i cittadini si aspettano.

giovs