«Noi così non possiamo più vivere. Dopo quello che stiamo passando non consiglierei più a nessuno di collaborare. Se le cose non cambieranno inizierò lo sciopero della fame». Oreste De Napoli dal 2003 è un collaboratore di giustizia, ma da tre anni combatte con il servizio centrale di protezione, dopo essere stato sfrattato, cacciato via dal programma e abbandonato a se stesso. Una situazione, denuncia l’avvocato Emanuela Capparelli, che prova «il disinteresse e l’inefficienza di un sistema forse al collasso o forse solo insensibile alle esigenze» dei collaboratori di giustizia. La storia di De Napoli, alias ' occhio di vetro', ex malvivente della cosca di ‘ ndrangheta Chi- rillo- Lanzino di Cosenza, è lunga e contorta. Una storia che trova il suo apice in un processo che lo ha visto imputato per aver ' perseguitato' due testimoni di giustizia reggini, Santo e Filippo Barreca, accusa dalla quale è stato assolto a dicembre «perché il fatto non sussiste». Così il ministero, come imposto dal Consiglio di Stato, avrebbe dovuto rivalutare la sua situazione, ma ad oggi nulla è cambiato. E il collaboratore, padre di un bambino di due anni, senza lavoro, sostegno economico e con un avviso di sfratto tra capo e collo, si è visto anche staccare la luce. «Per sopravvivere ci siamo dovuti rivolgere alla Caritas - racconta . Siamo stati abbandonati da tutti, magistrati compresi». È stata la denuncia dei fratelli Barreca, due anni fa, a farlo estromettere dal programma di protezione, perdendo così la “buonuscita” dopo anni di collaborazione.

Tutto parte dall’amicizia con un ispettore di polizia, finito poi a processo con l’accusa di rivelazione di segreto d’ufficio. È a lui che De Napoli si rivolge per cercare un lavoro ed è lui ad indirizzarlo dai due pentiti reggini. «Era tutto un bluff - spiega -, l’ispettore disse loro di non prendermi a lavorare, perché ero un pentito. Ma ha svelato anche a me che loro erano testimoni di giustizia», racconta. I Barreca decidono dunque di rifarsi sull’ispettore, chiedendo due milioni di euro di danni. «Mi hanno chiamato, registrando la nostra conversazione. Così - aggiunge - sono stato chiamato dai carabinieri per dare spiegazioni. Io ho cercato di non accusare l’ispettore, ma lui poi ha cercato di darmi la colpa. Così ho raccontato la verità. E mi sono allontanato da quei due». Ma li incontra di nuovo per caso: lo avvicinano, provano a convincerlo a testimoniare. Ma lui non vuole, chiama i carabinieri, chiedendo di essere lasciato in pace. «Da lì sono cominciati i guai: mi hanno denunciato più volte, dicendo che avevo addirittura tentato di investirli, che li perseguitavo», spiega. Viene arrestato per stalking e dopo poco rinviato a giudizio. Inizia il processo e i guai portano altri guai: a maggio scorso, infatti, il ministero gli spedisce un ultimatum di 30 giorni per fare le valigie. Ma è rimasto lì, nell’alloggio assegnato dal ministero, senza luce, senza soldi e senza un posto dove andare. Una situazione di grave pericolo, denuncia l’avvocato Capparelli, che ora lancia un appello al procuratore della Dda di Catanzaro, Nicola Gratteri. «Le sue condizioni di vita - scrive - sono ormai drammatiche. Si teme possa commettere gesti di disperazione estrema. Ancora una volta un collaboratore di giustizia viene lasciato solo dopo aver fatto egregiamente il suo dovere. Ancora una volta lo Stato si dimostra irriconoscente verso chi, confessando le proprie colpe e pagando il suo debito, ha servito la legge».