Se nel mondo libero può capitare di vivere in condizioni di incertezza, paura, perdita di autostima e crisi interiore, per chi vive recluso in carcere tutto questo è elevato al quadrato. Se oggi - con l’aggravante della pandemia e segnali di guerra - c'è bisogno più che mai di ascolto e di parole che curino l'anima, per i detenuti che hanno una propria storia e vicissitudine, il laboratorio di scrittura può rappresentare l’ancora di salvezza. Ed è il caso di “Letteratura d’evasione”, il libro edito da “Il saggiatore” curato da di Ivan Talarico e Federica Graziani dove i detenuti sono riusciti a sorprendere, creare forte empatia con il lettore e avere tutte le carte in regola per realizzare un’antologia di scritti autobiografici ( e non) di notevole valore letterario, umano e culturale.

L’ANTOLOGIA REALIZZATA DURANTE IL LABORATORIO DI SCRITTURA A FROSINONE

Parliamo di una importante esperienza attraverso la quale i detenuti trovano nuova forza, nuovi interessi e un recupero della propria interiorità insieme a gioia e coraggio di vivere, cose che le loro condizioni esistenziali avevano loro sottratto. Come spiega l’abstract del libro questa antologia a firma dei detenuti del carcere di Frosinone è stata composta durante il laboratorio di scrittura ideato e condotto dal poeta e teatrante Ivan Talarico, inserito all’interno del progetto “Fiorire nel pensiero” curato e ideato da Federica Graziani dell’Associazione “A Buon Diritto”. Leggendo tutto il libro, suddiviso per capitoli dove si richiede ai detenuti vari esercizi di scrittura, ci si ritrova a condividere le loro esperienze, vicissitudini, speranze, amori persi e quelli ritrovati.

«RACCONTARE NON QUESTO MONDO REALE, MA QUELLO PARALLELO»

Al primo esercizio dove i detenuti devono spiegare il motivo per il quale partecipano nel laboratorio di scrittura, Antonio Vampo scrive: «Vorrei partecipare per raccontare ciò che contiene non questo mondo reale, ma quello parallelo che tutti vivono ma non è da tutti raccontare. In ogni caso grazie perché in questo tempo io ero altrove». Chissà se lo ha fatto intenzionalmente, ma sembra che evochi “La vita è altrove”, frase attribuita al poeta Rimbaud. Ripresa poi da Milan Kundera per il titolo del suo libro, dove il protagonista era un poeta costretto a vivere il periodo della dittatura in Cecoslovacchia. Viveva in una prigione a cielo aperto, per questo il poeta aveva la tendenza ad evadere dalla realtà, a trasportarsi verso un mondo immaginario straordinariamente poetico, un altrove che diventa un luogo non definito e ricorrente, avulso dalla realtà.

Per evadere da quella società soffocante, il personaggio di Kundera ha cominciato a immaginare di vivere una vita parallela poetica e romantica, che fa da contraltare a una realtà che lo lasciava profondamente insoddisfatto. Proprio ritornando al libro “Letteratura d’evasione”, non può non sfuggire il capitolo dove i detenuti si esercitano a scrivere una breve autobiografia immaginaria, raccontando la vita che avrebbero voluto vivere.

Qui si prova una empatia devastante. C’è chi descrive semplicemente una vita ordinaria. Una famiglia che dà amore e protezione, la possibilità di lavorare serenamente, innamorarsi di una donna per poi sposarsi e fare una bellissima figlia alla quale non le fanno mancare nulla. Chi semplicemente trova l’amore vero e ciò basta per rendere il mondo perfetto.

Tutto ciò evoca un passaggio del film “Mommy” di Xavier Dolan. La storia è quella di un figlio molto problematico che per via della sua insostenibile emotività, non potrà mai fare una vita “ordinaria”. In una scena del film, però, con sottofondo la melodia “Experience” di Ludovico Einaudi, sembra che in realtà tutto sia finito per il meglio. Il ragazzo ha continuato gli studi, si è laureato e ha conosciuto una ragazza tanto da presentarla alla madre. Poi arriva il matrimonio e tutto si è risolto per il meglio superando definitivamente i suoi problemi emotivi. Niente da fare, in realtà era solo tutta una immaginazione. La vita, quella vera, ritorna a essere altrove. Ma immaginarla stando in carcere, diventa una evasione vera e propria se tutto ciò viene sublimato attraverso la scrittura.

Il tempo diventa una dimensione importante dietro le sbarre. Colpisce ciò che ad esempio scrive Bousmara, partendo dal fatto che è nato in un paese del terzo mondo in cui non c’è futuro sicuro. Arriva in Europa, pensando che fosse più facile. Invece ha «perso tanti anni senza frutti» e adesso si trova in un mondo isolato, in galera. Ha fatto cinque anni, persi dalla sua vita. In più si sta avvicinando la vecchiaia. «Ho capito che per la libertà non c’è prezzo», conclude.

LA NOTTE DIVENTA UN MOMENTO PER EVADERE GRAZIE AI SOGNI

Ma leggendo tutti gli scritti dei detenuti, si evince anche che c’è speranza e non tutto è perduto. Così come, crea forte impatto emotivo vedere come mettono nero su bianco lo scandire del tempo in carcere. La notte diventa un importante rifugio per dormire ed evadere attraverso il sogno. Ma svegliarsi – come scrive il detenuto Alfredo Colao – di soprassalto e vedere di fronte a sé le sbarre del blindato, la vita sognata svanisce. A quel punto si riaddormenta «con la consapevolezza che un giorno quel sogno sarà realtà».

Ci sono scritti dei detenuti dove emerge l’importanza dei rumori, oppure il vivere in una cella piccola, angusta e senza mobili, ma che attraverso la creatività e ingegnosità dei detenuti stessi, la rendono “abitabile” e quindi dignitosa. A proposito dei suoni, ecco che Emanuel Mingarelli racconta di quando era notte fonda e il silenzio del carcere viene interrotto dal ragliare di un asino proveniente dall’aldilà delle mura circondariali. E quel ragliare lo riporta indietro nel tempo. Anche in questo caso, non si può fare a meno di ricordare “L’idiota” di Dostoevskij, dove proprio il raglio dell’asino svegliò di soprassalto il protagonista. Fu proprio grazie all’udire questo animale, considerata figura mite, paziente e tollerante, che si tolse di dosso il suo peso interiore per poter amare di più il posto in cui si trovava.

È IMPOSSIBILE NON RICONOSCERSI NELLE VITE NARRATE DAI DETENUTI

Nella prefazione c’è Luigi Manconi che sottolinea come il libro dimostri la forza irriducibile della vocazione dell’uomo a narrare e narrarsi, e con ciò «a emanciparsi da vincoli e costrizioni di qualunque specie». C’è anche la prefazione dello scrittore Alesssandro Bergonzoni, il quale così si rivolge ai detenuti: «Nel letto dei vostri scritti mi adagio e sogno, ma non dormo. Mi svegliate alle vite, le vostre e le mie, che adesso riconosco». E infatti è impossibile non riconoscersi. Soprattutto per questo motivo va assolutamente letto il libro “Letteratura d’evasione”.

Una lettura utile anche per ridurre la distanza tra noi e loro. Leggendo alcune loro esperienze autobiografiche che l’hanno portati a compiere reati, aiuta a capire che è semplicemente un mero calcolo probabilistico che non siamo finiti noi dietro le sbarre. Non perché siamo diversi, ma perché abbiamo evitato, chi con lucidità e chi per puro caso fortuito, quelle deviazioni dove in alcune situazioni ambientali è più facile perdersi. Leggendoli, ci si domanda ancora una volta se il carcere sia la soluzione. Ma grazie al lavoro formidabile di Ivan Talarico e Federica Graziani, per quei detenuti la reclusione ha vissuto un momento meno pesante e decisamente proiettato verso la libertà.