Eperché hai cominciato a studiare Giurisprudenza, Totò? «Tu non ci crederai ma io del mio processo non sapevo nulla. Nulla. Un mare di carte, mai me n’ero occupato». E già, però una volta in carcere ti sarà venuta voglia di capire perché ti avevano condannato. «No, io non è che volevo capire. Ho preso i libri in mano per avere giustizia. La revisione del processo, questo avevo in testa».

Salvatore Cuffaro: così c’è scritto sul frontespizio. Il titolo della tesi è “Contrasto al sovraffollamento carcerario, tra Costituzione e Convenzione europea”. Il relatore è uno dei più importanti studiosi di Diritto penale del Paese: Giorgio Spangher. Oggi alla Sapienza l’ex presidente della Regione Sicilia si laurea in legge. Oggi da uomo libero, dopo quattro anni e 10 mesi trascorsi in carcere, fino a fine 2015, e spesi in parte a preparare gli esami. «Lo sai, a un certo punto è subentrata un’altra cosa. Ho capito la ragione che trattiene dietro le sbarre la maggior parte dei carcerati stranieri: non hanno mai avuto chi si occupasse davvero del loro caso. Un’assistenza vera.

Allora mi sono messo a farlo io. A un certo punto a Rebibbia prendevano appuntamento con me nigeriani, nordafricani, anche italiani certo. Scoprivo che bastava presentassero una certa istanza in modo corretto perché il loro destino cambiasse».

Avvocato prima di laurearsi, prima ancora di tornare libero. E il sorriso e la passione «per gli altri», pure quella appartiene al Totò Cuffaro recluso come all’uomo uscito dal carcere. Un’oretta, nella stanza del direttore Piero Sansonetti, che potrebbe durare giorni, almeno tre vite da rimettere insieme: l’uomo di potere, il carcerato e adesso la persona che ritrova la libertà da tutte e due le condizioni precedenti. E anche il tempo di laurearsi con Spangher, lui che la laurea in Medicina l’aveva presa 35 anni fa. «C’è stata una convenzione con l’università della Sapienza, oltre a Spangher sono venuti a fare lezione a Rebibbia giuristi del calibro di Fiorella, Alpa. L’incontro più commovente è stato con Oliviero Diliberto». Lui già da tempo era fuori dalla politica, vero? «E sì, un professore di Diritto e basta. Mi vede e mi abbraccia, gli escono le lacrime. Studiare legge in carcere mi ha messo davanti a una realtà assurda». Cuffaro pensa a quanto l’opinione pubblica si sia schierata dalla parte di detenuti del tutto particolari come i due Marò: «Come possiamo salvare loro e non occuparci delle persone che sono in carcere in Italia? Siamo un Paese di ipocriti».

Totò non può più disertare la battaglia per la dignità dei reclusi. All’inizio della tesi di laurea ci sono tre dediche: la prima a suo padre, «la cui ascesa al Cielo è avvenuta senza che il carcere mi abbia consentito di essere presente». La seconda lascia ammutoliti: «A detenuti “fine pena mai” che hanno scelto di morire una sola volta piuttosto che morire ogni giorno». La terza dedica è semplicemente «ai detenuti». Una condizione di cui ci sfugge il senso tragico, scrive Cuffaro nell’introdurre la tesi da dottore in Legge: «Il detenuto è uno sconfitto della vita, e come ogni sconfitto subisce il declino del suo destino». È «un uomo da capire soprattutto se nulla fa per essere capito, da aiutare anche se non vuole, è un uomo da indurre alla speranza se è disperato, da amare anche se sa solo odiare». E alla fine: «Il carcere non è storia di corpi ma storia di anime e spiriti. Quando lo Stato e la società lo capiranno, solo allora le condizioni dei detenuti in carcere potranno migliorare».

C’è verità cristallina nelle parole e nella dedizione di quest’ex potentissimo governatore democristiano, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, che ha finito di scontare la pena ma non si toglie più quell’infamia dalla testa. «Da politico ho fatto tante di quelle cose che dovrebbero darmi trent’anni», sorride, e poi completa: «Ma se c’è un peccato che non ho mai commesso è il favoreggiamento alla mafia». Ti ribelli o no alla sentenza? Ti sei laureato apposta, hai detto. «Però poi ho capito che non è necessario intervenga un magistrato a ristabilire la verità. La verità è negli occhi delle tante persone che vengono ad abbracciarmi, che mi vogliono ancora bene e che quando mi vedono hanno prima lacrime e poi sorrisi. Alla fine mi basta quello». Ma non è detto finisca così: «La testimonianza chiave per l’accusa nel mio processo è stata un’intercettazione ambientale in cui il perito del pm Di Matteo sostiene di riconoscere la moglie un mafioso dire «ragione avìa Totò Cuffaro» . Altri periti molto più accreditati di lui sostengono che in tutta quella registrazione non c’è mai una voce di donna. Adesso ho il parere di una società di fiducia dell’Fbi, ma ottenere la revisione di un processo è quasi impossibile».

Di concreto c’è intanto la denuncia sulla disapplicazione dell’ultimo svuotacarceri, messa per iscritto nella tesi: «Il decreto cosiddetto degli 8 euro prevedeva in realtà uno sconto di pena pari a 3 giorni al mese per chi è detenuto in condizioni inumane e degradanti. Praticamente tutti i reclusi d’Italia fatta eccezione forse per Bollate. Ma a furia di contestare le loro ordinanze il Dap ha scoraggiato i magistrati di sorveglianza e lo sconto non esiste più». Oggi lo dirà all’esame di laurea. Così come racconterà della sanità penitenziaria: «Avevo una colica renale, tanto ho aspettato la flebo che ho espulso il calcolo da solo. Ma se chiedi uno psicofarmaco te lo portano in tre minuti. Il detenuto è una cosa che deve stare buttata lì e non dare fastidio». A un compagno di cella «non puoi regalare nulla, neppure una radiolina. C’era un nigeriano che non sentiva la famiglia da un anno e mezzo perché non aveva neppure i soldi per telefonare. Gli ho fatto fare un bonifico da mio fratello, di 100 euro: ho rischiato la condanna».

Sorrisi, qualche amarezza. Il dramma della sua famiglia. L’onta delle menzogne. «Come quella dei cannoli. Ero in Regione, c’era questo vassoio di cannoli su un tavolo, anziché chiedere a un commesso lo presi e lo spostai. Un giornalista mi fotografò in quell’attimo e non ci fu nulla da fare, dissero che festeggiavo con i cannoli. La furia della menzogna mediatica è più forte della verità». Adesso la verità di Totò Cuffaro è un’altra: se c’è una cosa per cui vale la pena dimenticare le ferite è dare una mano a chi è ancora là dentro.