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Ci sarebbe a Roma una mafia strisciante, serpentesca, capace di intimidire pur senza usare i vecchi metodi, «quelli della mafia coppola e lupara». Ne sono certi i pm della Procura di Roma. Che mostrano notevole severità, persino durezza nel ricorso in appello contro la sentenza con cui il Tribunale ha escluso l’associazione mafiosa per gli imputati del “Mondo di mezzo”. Severi perché accusano i giudici del collegio presieduto da Rosanna Ianniello, di «pregiudizio». Di fatto, ritengono che la decima sezione del Tribunale non abbia visto quello che invece sarebbe evidente.
È la versione on line del Corriere della Sera ad anticipare i contenuti dell’atto con cui la Procura ha impugnato la sentenza dello scorso 20 luglio. Vi si legge un completo dissenso dalla lettura che i giudici hanno dato delle gesta di Massimo Carminati e Salvatore Buzzi. Vi sarebbe un’incapacità di fondo di scorgere le sembianze di un nuovo modello di criminalità organizzata, che invece sa ottenere complicità da pubblici amministratori corrotti in capo a «minacce insidiose», veicolate con «modalità» che diverse da quelle delle vecchie cosche siciliane. È il paradigma di una mafia che capace di insediarsi anche in territori diversi da quelli tradizionali.
La contestazione è formulata in un ricorso assai più agile rispetto alla sentenza della scorsa estate, di ben tremila pagine. A firmarla sono il capo dell’ufficio Giuseppe Pignatone, i procuratori aggiunti Michele Prestipino, Paolo Ielo e Giuseppe Cascini, e il sostituto Luca Tescaroli. La pronuncia impugnata ha inflitto pene tutt’altro che lievi agli stessi vertici dell’organizzazione: 20 anni a Carminati, 19 a Buzzi. Ma in gioco non c’è appunto un’interpretazione del fenomeno mafioso. Se il collegio presieduto da Ianniello ne ha avuta una diversa da quella dei pm, è anche perché, secondo questi ultimi, avrebbe ceduto a una «visione atomistica dei singoli fatti ricostruiti, omettendo di rilevare anche i più ovvi collegamenti e cercando di decostruire quelli evidenti». Ma questo sarebbe avvenuto a partire da un pregiudizio, cioè in virtù, appunto, di un cedimento ai ««più diffusi stereotipi in materia di mafia, secondo i quali la mafia è solo quella con la coppola e la lupara, quella che spara e uccide ovvero è quella che parla calabrese o siciliano». Non si sarebbe tenuta in alcuna considerazione la «evoluzione della giurisprudenza in materia, che invece è da tempo attenta ad individuare le trasformazioni socio- criminali delle mafie, sia quelle tradizionali che quelle nuove, capaci di insediarsi in territori diversi da quelli tradizionali con metodi nuovi e diversi, ma con le identiche finalità di acquisizione di potere economico, mediante l’assoggettamento e l’omertà». Il ricorso contiene una contestazione frontale: la X sezione del Tribunale di Roma avrebbe travisato le argomentazioni dell’accusa attraverso una particolare «tecnica argomen- tativa», con si sarebbe attribuita ai pm «una tesi diversa da quella sostenuta, per poi confrontarsi solo con quella e non con quanto effettivamente sostenuto».
In alcuni casi il ricorso in appello ritiene vi siano errori di fatto. Come quello di aver «smentito» che la natura mafiosa della vecchia banda della Magliana, di cui Carminati fece parte, sia «rimasta controversa negli esiti giudiziari». Ci furono due sentenze di segno opposto: «Il Tribunale, seguendo sul punto quanto affermato dalla difesa di Carminati nella discussione, prende in considerazione solo la seconda decisione e non la prima, che evidentemente mostra di non conoscere».
Ma il passaggio decisivo, in cui secondo i pm, il Tribunale sarebbe venuto meno rispetto a una corretta definizione della complessa struttura del “Mondo di mezzo”, sarebbe nella segmentazione dell’associazione a delinquere. Secondo la Procura si trattava di un’unica struttura, dal carattere decisamente mafioso, mentre i giudici hanno individuato due “associazioni semplici”: una “specializzata” nell’usura e nelle violenze, l’altra dedita alla corruzione, entrambe guidate dal “Cecato”. Ma per la Procura di Roma «Carminati è sempre Carminati e non può essere un delinquente da strada a capo di una banda di delinquenti da strada quando staziona al benzinaio per poi trasformarsi in un abile faccendiere dedito solo alla corruzione quando fa affari con Buzzi, per poi ritornare, ma solo per un momento e solo uti singulus, delinquente di strada quando si tratta di risolvere, per Buzzi, una controversia con soggetti di elevato spessore criminale».
Tale «operazione di segmentazione dei fatti provati, e financo della personalità del capo e promotore della organizzazione» sarebbe, scrivono i pm, «del tutto artificiosa e scollegata dalla realtà, funzionale solo a giustificare la esclusione del carattere mafioso della associazione». Ma perché quest’ultimo potesse esservi avrebbe dovuto rintracciarsi quella «forza di intimidazione», del «vincolo associativo» e della «condizione di assoggettamento e di omertà» richiesti dall’articolo 416 bis del Codice penale. Ebbene, si tratterebbe di tratti visibili, secondo la Procura, incomprensibilmente sfuggiti al giudizio di primo grado. Il Tribunale, secondo i pm guidati da Pignatone, «non riesce a liberarsi da quel modello oleografico di associazione mafiosa stigmatizzato dalla giurisprudenza di Cassazione, confonde la forza di intimidazione con le modalità attraverso le quali sono veicolate le minacce da parte del sodalizio». Minacce che non devono essere per forza «violente», secondo l’accusa, che conclude con una citazione in cui Sciascia segnala quanto «pericolose e insidiose siano le minacce oblique e implicite, queste sì tipicamente mafiose».