Non mi ero ancora ripreso dalla visione di Luca Palamara senza barba da Massimo Giletti in veste addirittura di benemerito “mediatore” e immeritato “capro espiatorio”, non di navigato tessitore correntizio di carriere giudiziarie o altro ancora, e mi è capitato di leggere l’altra mattina una intervista a dir poco disarmante di Claudio Martelli. Che pure è stato considerato ai suoi tempi di governo il migliore ministro della Giustizia da un uomo che non era certamente di gusti e attese facili: l’allora temutissimo capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli. Il quale fu davvero rammaricato di averlo visto costretto a dimettersi da guardasigilli per il coinvolgimento in quella Tangentopoli che lo stesso Borrelli e i suoi sostituti si erano proposti di demolire senza badare a mezzi, anche a costo di suicidi fuori e dentro le carceri. Furono considerati incidenti di percorso, come di auto agli incroci senza semaforo.

Non parlo poi della stima, e infine anche dell’amicizia, di quel fior fiore di magistrato che era Giovanni Falcone, di cui Martelli formalizzò l’arrivo al ministero della Giustizia come direttore degli Affari penali pazientemente preparato dal suo predecessore in via Arenula Giuliano Vassalli e dall’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

Il quale mi raccontò di avere “quasi incantenato” ad una sedia del Quirinale il suo amico magistrato quando, nel passaggio da Vassalli a Martelli, andò a esprimergli il timore di esporsi a qualche supplemento di critiche e attacchi nel mondo giudiziario per essersi occupato, sia pure di striscio, del nuovo ministro come magistrato inquirente quando i socialisti furono accusati di essersi guadagnati i voti della mafia in Sicilia. Dove proprio a Martelli il segretario del partito Bettino Craxi aveva conferito il ruolo di capolista. «Tu non ti muovi da qui sino a quando non ci ripensi e non ti lasci salvare dopo tutto quello che abbiano fatto per portarti via da Palermo», mi raccontò Cossiga di avere detto a Falcone piegandone le resistenze. Non immaginava, il povero Cossiga, che non sarebbe riuscito a salvare l’amico neppure portandolo via dalla Sicilia, dove a minacciarlo non erano solo i mafiosi ma - ahimè, pur per altre vie- i colleghi magistrati invidiosi della sua bravura e i politici dell’isola, a cominciare dall’allora e ancora sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Che lo immaginavano impegnato - pensate un po’- a nascondere fascicoli e a proteggere il cosiddetto “terzo livello” della criminalità mafiosa.

Quel plurale usato da Cossiga per ricordare a Falcone quanti si erano spesi per cercare di aiutarlo era riferito non solo a Vassalli, nel frattempo andato alla Corte Costituzionale, e al suo successore, ma anche all’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti e a un amico di famiglia del magistrato, per via dei rapporti fra le mogli risalenti agli anni di scuola, che era il democristiano Calogero Mannino. Sì, proprio lui: l’uomo destinato a provare sulla sua pelle gli inconvenienti di una giustizia amministrata in modo a dir poco discutibile, che da vittima designata della mafia si trovò ad essere rappresentato come un complice, fra gli ispiratori, se non il maggiore, della famosa “trattativa” nella stagione delle stragi, più volte assolto ma non per questo lasciato finalmente in pace da chi ne è evidentemente ossessionato.

Con queste storie alle spalle, che ho evocate anche perché addebitali in fondo ai criteri di lottizzazione correntizia e politica dei magistrati nei loro avanzamenti di carriera, inevitabilmente a scapito dei meriti, pur se Palamara ha disinvoltamente sostenuto nel salotto televisivo di Giletti che le scelte sono sempre state ugualmente di alto livello, che cosa mi fa l’ex guardasigilli e amico Claudio Martelli? Stecca nel giusto coro delle proteste di fronte allo scenario emerso dalle intercettazioni di Palamara sollecitando praticamente il presidente della Repubblica, in una intervista alla Verità di Maurizio Belpietro, a convincere i consiglieri superiori del Palazzo dei Marescialli “da lui nominati” a dimettersi per creare le condizioni necessarie allo scioglimento anticipato dell’organo di autogoverno della magistratura.

Ma di consiglieri superiori di nomina presidenziale non me ne risultano, diversamente dai giudici costituzionali, cinque dei quali su 15 sono nominati appunto dal capo dello Stato. A meno che Martelli non intenda per consiglieri superiori nominati dal presidente della Repubblica quelli di diritto. Che sono, in base all’articolo 104 della Costituzione, il primo presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione: solo due, non certo sufficienti a paralizzare il Consiglio Superiore facendogli mancare il numero legale. Purtroppo il capo dello Stato non ha alternative all’attesa o dell’autodemolizione improbabile del Consiglio, per rinuncia della maggioranza dei suoi esponenti a reggere la pesante situazione obiettivamente creatasi con la palamarite, o della sua riforma in cantiere nel governo. Dove personalmente non mi faccio illusioni sulla fretta un po’ da tutti dichiarata a parole, visto lo strumento della delega legislativa che vedo affiorato dalle cronache. E che per prassi ormai consolidata significa, per i tempi, l’opposto di quello che sembra. Il ministro Alfonso Bonafede ha detto alla Stampa, che “tra una cosa e l’altra” occorrerà “un anno”, addirittura, con tutto quello che è venuto fuori e con lo sconcerto che ha provocato, a cominciare dal Quirinale. Tuttavia – ha aggiunto il guardasigilli - in attesa della riforma del funzionamento del Consiglio “le regole sull’elezione saranno subito in vigore”. È come pretendere di costruire una casa dal tetto, come si è d’altronde già cercato di fare in Italia tentando di aggirare una vera riforma costituzionale modificando continuamente la legge elettorale. Stiamo freschi.