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Abusi e traffico di psicofarmaci tra detenuti, con la conseguenza che forse ci è scappato anche il morto. Il carcere di Ivrea, ancora una volta, continua a far discutere. A seguito della morte, avvenuta il mese scorso, di un tunisino 37enne a causa di un infarto, spunta l’ipotesi di abuso di psicofarmaci e per questo motivo il procuratore capo di Ivrea ha aperto un fascicolo per omicidio a carico di ignoti. Secondo il garante della struttura Armando Michelizza, all’interno del carcere eporediese ci sarebbe un consumo eccessivo di medicinali e i detenuti riuscirebbero a scambiare tra loro i farmaci che gli sono stati prescritti. Questi sono gli aspetti che il procuratore cercherà di approfondire dopo che il medico legale avrà depositato gli esiti dell’autopsia e tossicologico. Intanto il garante regionale dei detenuti, Bruno Mellano, ha chiesto e ottenuto di incontrare la responsabile della “Sanità penitenziaria” dell’Asl To4, Ornella Vota, che ha il compito di monitorare le terapie e le prescrizioni fatte ai detenuti del carcere di Ivrea. Va ricordato, che alla fine del mese di gennaio scorso, Ilvja Manzi e Igor Boni della direzione nazionale di Radicali Italiani, e Marco Grimaldi, capogruppo di Sel in Regione Piemonte, avevano fatto visita alla Casa circondariale di Ivrea e tra le varie criticità che avevano riscontrato, una fu proprio l’eccessivo utilizzo degli psicofarmaci, appurando che ne facevano uso quasi la totalità della popolazione detenuta.
L’uso smodato degli psicofarmaci è un problema che riguarda tutta la popolazione detenuta della nostra penisola. Valium, antipsicotici, antidepressivi, benzodiazepine, ipnotici e op- piacei, questa è la pioggia di pillole colorate che si riversa tutti i giorni sui detenuti italiani. L’istituzione carceraria si serve così della psichiatria per stemperare il conflitto, e garantirsi una maggiore sopportazione, da parte dei detenuti, delle situazioni di degrado e sovraffollamento che sono costretti a subire. Inoltre c’è il sospetto che dietro alcune morti che avvengono al carcere – come il caso di Ivrea - ci sia l’ombra dell’abuso degli psicofarmaci. Un problema tanto grave da far denunciare a Francesco Ceraudo, per 40 anni dirigente sanitario dell’ospedale penitenziario Don Bosco e per 25 presidente dell’Associazione nazionale dei medici dell’ammidell’esame nistrazione penitenziaria: «Nelle carceri italiane si entra puliti e si esce dipendenti». Non sono rari i casi di detenuti che, una volta usciti dal carcere, sono costretti a fare nuovamente uso di psicofarmaci per via dell’assuefazione. Purtroppo non abbiamo dati recenti circa l’utilizzo degli psicofarmaci. Dal 2008 la salute dei detenuti è passata dall’amministrazione penitenziaria alle Asl territoriali. Il che se per certi versi è una conquista storica, per altri significa ognun per sé. Lo studio più recente e completo risale così al 2014 ( «La salute dei detenuti in Italia» ), un’indagine dell’Agenzia regionale della sanità Toscana che ha coinvolto 57 strutture detentive ( il 30% di quelle italiane), cinque regioni ( Toscana, Lazio, Umbria, Veneto, Liguria) e Asl di Salerno: 15.751 detenuti. Nella ricerca spicca un dato: il 46% dei farmaci prescritti sono psicofarmaci. La quasi totalità di questi ( 95,2%) appartiene al gruppo di molecole che agisce sul sistema nervoso, con gli ansiolitici ( 37,8% del totale) a fare la parte del leone. Percentuale che sale vertiginosamente se si considera la fascia d’età 18- 29 anni. Ottenere una terapia è facilissimo. Ed è più facile trovare un sedativo che una tachipirina.