Morale. Il problema della magistratura è di natura etico- morale. È così? No, in realtà. Solo che a furia di buttare la palla nella tribuna del moralismo si finirà per avviare una finta restaurazione. Il problema invece è strettamente funzionale. Riguarda la struttura del potere giudiziario. Il modo in cui lo esercitano innanzitutto le Procure e lo amministra il Csm. Il resto è divagazione.

Si potrebbe sintetizzare così la conferenza stampa con cui ieri l’Unione Camere penali ha fatto saltare il tavolo delle certezze attorno alla riforma. Una discussione in cui è stata offerta una chiave di lettura alternativa, ma probabilmente assai più efficace delle altre, dal presidente dei penalisti Gian Domenico Caiazza, dal segretario Eriberto Rosso, dal past president, e padre dell’iniziativa sulla separazione delle carriere, Beniamino Migliucci, e dal responsabile, per l’Unione, dell’osservatorio sull’Ordinamento giudiziario Rinaldo Romanelli. E nelle proposte che l’Ucpi non solo illustra ai cronisti in videoconferenza ma raccoglie in un dettagliatissimo documento, c’è una cosa in apparenza marginale, e invece decisiva, ben spiegata nella sintesi della piattaforma: «I recenti scandali, innescati dalle indagini di Perugia, hanno messo in luce il peso abnorme che nel funzionamento del Csm hanno le correnti, peso che il più delle volte si sostanzia in lottizzazioni pure e semplici delle posizioni di rilievo del nostro sistema giudiziario», è la premessa dei penalisti. Le ragioni sono «molteplici» ma «spicca la mancanza di garanzie sulle qualità professionali dei nostri magistrati. Oggi i controlli di professionalità non sono che dei meri riti, dato che nel 99% dei casi si traducono in un acritico giudizio positivo. Alla base di tale disfunzione», si legge nel documento dell’Unione Camere penali, «sta il conflitto di interessi che li governa: sono infatti effettuati per lo più da coloro, i consiglieri del Csm, che vengono eletti proprio da coloro che devono essere valutati». Aspetto semplice e determinante. Come andrebbe risolto? Innanzitutto, suggeriscono i penalisti, con «affidabili verifiche di professionalità, smantellando il conflitto di interessi» che le rende «inefficaci» e assegnando «un vero ruolo a docenti ed avvocati». Bene. E la riforma scioglie un così decisivo nodo?

Caiazza e Migliucci rispondono così: «Non c’è voglia di riformare, nessuno vorrà mai toccare temi, quali ad esempio il distacco dei magistrati nei ministeri, c’è una grande ipocrisia». Tutti i progetti toccano qualunque aspetto fuorchè quello cruciale, spiegano, cioè quello della «valutazione professionale».

E per capire quando la contestazione sia basata sui fatti, basti considerare che nella prima bozza della riforma il guardasigilli Bonafede, evidentemente consapevole del problema, aveva previsto eccome il diritto di voto di avvocati e professori nelle valutazioni che i Consigli giudiziari propongono sulla professionalità di ciascun magistrato. Dopodiché è partito un fuoco di fila, anche da settori della maggioranza, con cui si è ridimensionato quel diritto di voto in un parere che i presidenti degli Ordini forensi potranno offrire al Csm non sulla professionalità ( e lo scatto stipendiale) del magistrato, ma solo sulla sua adeguatezza a un incarico direttivo. Serve altro?

Naturalmente l’Unpi non si risparmia dal mettere sul tavolo le carte più pesanti: a cominciare dalla riforma costituzionale necessaria per «spezzare l’altro grande conflitto di interessi, quello che lega giudice e pm, separando gli organi di governo. Verrà finalmente reso efficace il controllo del giudice sull’operato della pubblica accusa e contenuta l’espansione dei suoi poteri». Espansione legata anche all’innalzamento delle pene, e destinata ad attrarre ingolosire la politica e favorire gli intrecci sulle nomine negli uffici inquirenti. È la scena madre del caso Palamara. Spiegata con una chiara analisi funzionale, e non con il moralismo. Solo che gli unici a proporre l’analisi sono i penalisti italiani. E che la riforma rischia di andare da tutt’altra parte.