Nel nostro Paese, a differenza di quel che accade altrove, non esiste il “reato di tortura”; ma la tortura, inflitta tramite la legge, quella certo non manca. Nelle carceri speciali italiane, quelle dove vige il regime 41bis - si noti il termine, burocraticamente anodino, volto a banalizzare il male - la si pratica normalmente, fa parte integrante della quotidianità del recluso. A far data ormai da un ventennio e forse più.

Questa grave asserzione non è una calunnia antagonistica, è una descrizione di quel che accade nelle nostre carceri. Io dico: il 41bis è tortura ( anche per Totò Riina)

Infatti, oltre sedici sentenze della Corte Europea hanno condannato lo stato italiano; ritenendo che il dispositivo afflittivo del 41bis sia del tutto equivalente alla pratica disumana della tortura di Stato. Totò Riina - quella faccia da contadino pescatore mediterraneo, lo diresti un apostolo - è un ergastolano che abita, per così dire, il 41bis da oltre venti anni. È stato un autorevole capomafia, con un suo arcaico e riprovevole codice d’onore, niente affatto mercantile. Ha rifiutato di usare la delazione o anche il pubblico pentimento per ottenere un alleggerimento della condanna. È stato ritenuto colpevole di decine e decine di omicidi - pochi i suoi, molti dei complici, alcuni di estrema crudeltà, come si conviene a un padrino. Si tratta di un ergastolano speciale, nel senso che sconta la sua pena in un carcere speciale: classificato come pericoloso, quasi sempre ristretto in isolamento, perché ritenuto in grado di influenzare le moltitudini mafiose. Toto Riina veleggia verso i novanta anni a mal contare; soffre di patologie invalidanti, non riesce a muoversi, ha difficoltà di parola, non ha contezza di s, quasi fosse entrato in una lunga agonia.

Una recentissima sentenza della Cassazione, per una volta destata dal suo torpore secolare, ha stabilito che le condizioni di salute del vecchio boss sono tali da richiedere una argomentazione adeguata della sua pericolosità sociale e quindi della detenzione indegna in regime 41bis. La sentenza ha innescato un dibattito sui media, dibattito nel quale si è distinto un procuratore simbolo della attività giudiziaria contro la criminalità organizzata; questo magistrato ha dichiarato che Riina, fosse perfino muto, esercita comunque un ruolo di comando sulle moltitudini mafiose perché, caso unico tra gli umani, riesce «a parlare con gli occhi».

Qui la retorica forcaiola tocca l’acme, acme che coincide senza residui col ridicolo. Così, a partire dalla legge Pica degli anni Sessanta dell’Ottocento, un secolo e mezzo di legislazione speciale non è stato sufficiente per distruggere la mafia; piuttosto ha provocato una sorta di mutazione genetica che permette ai mafiosi di conversare con gli occhi. Il noto procuratore svolge anche, a tempo parziale, il lodevole compito di illustrare e promuovere la legalità nelle scuole e nelle università meridionali. Non è il solo, vi sono anche altri promotori, perfino intere associazioni. Non abbiamo alcun motivo di dubitare delle buone intenzioni di questi variegati volenterosi.

E tuttavia non possiamo non rimarcare una omissione trasversale, per quanto marginale essa possa ritenersi. Infatti, per promuovere la legalità tra i giovani meridionali, forse bisognerebbe in primo luogo descrivere la legalità cioè distinguere tra legalità formale e materiale. Per la prima bastano le parole, mentre per la seconda occorre l’esperienza. Detto altrimenti, la legalità che vige nel nostro paese appare nella sua autentica luce se lo sguardo va dal materiale al formale, dal carcere speciale ai luoghi dove si produce la legge e si amministra la giustizia. Considerazione questa di antico buon senso; già Agostino, il santo, suggeriva che il modo più sicuro per vedere quel che nella legge non appare è visitare le carceri. Suggeriamo a don Ciotti, nonché al noto procuratore, nel quadro della promozione della legalità, di organizzare degli incontri tra i detenuti in regime di 41bis e gli studenti meridionali - potrebbe capitare a questi ultimi di ritrovare tra i primi dei parenti sopravvissuti ma per sempre smarriti.