di ALESSANDRO PARROTTA DIRETTORE ISPEG

Con la deliberazione 16 settembre 2021, n. 15/2021/G, la Corte dei Conti ha condotto un approfondito il focus d’indagine in tema di equa riparazione per ingiusta detenzione ed errori giudiziari, sì da fornire un quadro sull’ammontare dei risarcimenti ed indennizzi che ogni anno pesano sull’Erario.Al di là del mero dato economico, la relazione è utile per portare alla luce le disparità di trattamento fra le varie Corti territoriali e come e perché taluni Fori cadano in più errori giudiziari rispetto ad altre sedi. Dai dati emerge, infatti, che dal 2018 le Corti d’Appello calabresi – Reggio Calabria e Catanzaro – sono gli Organi giudicanti che più incidono sul bilancio. Il dato è anche sintomo di una disciplina che, ad oggi, pur godendo di criteri quantificativi dell’indennizzo di creazione giurisprudenziale, ancora non ha uniformità, comportando dunque che per identici casi si giunga a quantificare in maniera assai differente il quantum del risarcimento conseguente all’errore. La relazione ha altresì sollevato ulteriori questioni di fondamentale importanza sul tema: da un lato l’eventuale necessità di creare norme di coordinamento tra la disciplina ex artt. 314 e 315 c.p.p. e il danno aquiliano ex art. 2043, concernente la responsabilità civile dei magistrati, così come disciplinata dalla c.d. Legge Vassalli del 13 aprile 1988, n. 117, successivamente modificata dalla Legge 27 febbraio 2015, n. 18. Attualmente la disciplina nostrana può dirsi tripartita. Da una parte il Codice di rito concede il diritto a un indennizzo per ingiusta detenzione conseguente all’erronea applicazione di ordinanza cautelare, ai sensi degli artt. 314 e 315 c.p.p. Il rimedio de qua, quindi, ha il fine di compensare il pregiudizio patito a seguito di un’ingiusta limitazione della libertà personale in regime di misura cautelare. Il secondo tipo di rimedio, disciplinato dagli artt. 643 e 647 c.p.p., è parimenti un indennizzo accordato per chi, a seguito di giudizio di revisione, veda rescissa la propria condanna. L’errore, in questo secondo caso, è dunque determinato non dall’ingiusta applicazione e patimento da una misura cautelare, ma da una detenzione frutto di una condanna ingiusta. Come per il primo rimedio, il soggetto che può godere dell’indennizzo non deve aver concorso con dolo o colpa grave nel determinare l’errore. La terza ipotesi, come anticipato, è un vero e proprio risarcimento – e non già indennizzo – scaturente da una condotta gravemente negligente, ovvero dolosa, del magistrato, causando un danno illecito di natura civilistica ai sensi dell’art. 2043 c.c., così come disciplinato agli artt. 2 e 3 della Legge Vassalli. La differente natura delle compensazioni derivanti da errori – leciti o illeciti, penali o civili – comportano una compatibilità fra le due azioni, le quali possono pertanto cumularsi scaturendo in una duplice riparazione per il nocumentosubito, con maggior spesa per l’Erario. Ad onor del vero, analizzando la situazione da un punto di vista maggiormente pragmatico, va detto che difficilmente la responsabilità civile del magistrato viene riconosciuta, mentre assai più frequente è la liquidazione per danni scaturenti da ingiusta detenzione ai sensi della disciplina del Codice di procedura penale. Ancora, è necessario far presente che il risarcimento accordato ai sensi della Legge Vassalli risulta piuttosto limitato: l’art. 3, comma 8 dispone che questo “non può superare una somma pari alla metà di una annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l'azione di risarcimento è proposta, anche se dal fatto è derivato danno a più persone e queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità”. Tale limite è escluso, tuttavia, se il fatto è stato commesso con dolo.Ad ogni modo, almeno teoricamente, la cumulabilità delle azioni è ammissibile. Non sono ravvisabili eccessive criticità dovute dal doppio peso per l’Erario in considerazione del fatto che l’indennizzo ex Codice di rito e il risarcimento ai sensi della Legge Vassalli prendono le loro mosse da due presupposti differenti. Da un lato si ha un nocumento causato per fatti leciti, fisiologici del sistema penale (seppur con tutte le precauzioni e i discorsi afferenti all’indiscriminata applicazione delle misure cautelati e di cui non si parlerà in questa sede), dall’altro vi è la responsabilità del magistrato per fatti a lui direttamente imputabili causa la condotta colposa, ovvero dolosa. Un coordinamento può rendersi necessario nell’ottica di alleviare il carico processuale degli Uffici giudiziari causato dall’attivarsi di due giudizi distinti, ma potenzialmente connessi, uno in sede civile e l’altro in sede penale, coordinamento che ben potrebbe inserirsi nell’attuale panorama di riforma della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, attesa la ratio deflattiva della stessa. In secondo luogo, una normativa di collegamento può rendersi auspicabile al fine costruire una disciplina dal più ampio sguardo europeo, che funga da raccordo con gli altri stati dell’Ue. Insomma, delle modifiche di coordinamento tra la Legge Vassalli e il Codice di rito penale si renderebbero indubbiamente utili, non tanto per alleggerire il peso sull’Erario – il quale può essere più utilmente abbattuto ponderando le scelte in sede di giudizio (come dimostrato dall’ampia disparità dei dati relativi alle varie Corti) – piuttosto per abbattere i tempi del processo e armonizzare la disciplina nostrana con quella degli altri stati comunitari.