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«Sa quanti innocenti ho conosciuto in carcere? Almeno un centinaio e non sto esagerando. Nessuno è immune. Anche a lei può succedere quello che è successo a me». Rocco Femia fino al 3 maggio del 2011 è stato sindaco di Marina di Gioiosa, poco più di 6mila abitanti sullo Jonio calabrese. Per tre anni ha amministrato la “città del sorriso” senza sapere che, dal 2008, anno in cui i suoi concittadini lo avevano incoronato sindaco, il fascicolo col suo nome attendeva che un gip mettesse una firma che autorizzasse il suo arresto. Quella firma, alla fine, è arrivata al giro di boa della sua amministrazione. Che nel bel mezzo della notte è stata spazzata via dall’operazione “Circolo Formato”, circa quaranta arresti tra i quali sindaco e tre assessori. Rimasti in carcere per anni, bollati dai giornali come «malacarne» asserviti ai clan che dopo essersi sfidati anni prima a colpi di pistola avrebbero riacceso la loro faida alle urne. Ma Femia, che in custodia cautelare in carcere ha trascorso cinque anni e nove giorni, alla fine si è rivelato un uomo innocente. Condannato per due gradi di giudizio a 10 anni, prima che la Cassazione evidenziasse l'assenza di qualsiasi elemento che giustificasse l’ipotesi che fosse un affiliato al clan Mazzaferro, e costretto a subire un nuovo processo d’appello, per verificare se, quantomeno, ci fossero gli estremi per considerarlo un concorrente esterno. Alla fine non c’erano nemmeno quelli. Così, nel 2021, 10 anni dopo essere uscito dalla Questura di Reggio Calabria con le manette ai polsi, i giudici hanno decretato la sua innocenza «per non aver commesso il fatto». Una sentenza che nessuno ha appellato, perché ormai era chiaro a tutti: non aveva fatto niente. Così come i suoi assessori, più fortunati di lui solo perché, per loro, la scarcerazione è arrivata qualche anno prima, così come l’assoluzione. Femia, da giorni, attraversa la Calabria sotto il vessillo del Partito Radicale per promuovere i referendum. «La gente deve fare il proprio dovere e votare cinque sì - ci dice -. E lo dico perché quello che è capitato a me non capiti più a nessuno e per avere una giustizia giusta». In Questura, quel 3 maggio 2011, gli uomini in divisa se lo contendevano per portarlo fuori, a favore di telecamere. Alla fine vinsero i più alti in grado e Femia apparve davanti agli obiettivi accompagnato da due poliziotti, col volto sconvolto, dopo l’irruzione notturna di divise e telecamere in casa sua e una giacca a coprire il luccichio delle manette. Era lui il volto a cui gli obiettivi ambivano di più, perché un sindaco che finisce in carcere con l’accusa di essere stato eletto grazie alla ‘ndrangheta non può che essere la star indiscussa di un’operazione antimafia. E quelle foto sono ancora in rete, a ricordare quanto accaduto. In carcere, quel sindaco, divenuto in un batter d’occhi ex, ci è rimasto finché è stato possibile trattenerlo. Ma l'accusa non è mai riuscita a dimostrare l'elargizione di un solo appalto, di una concessione o di un solo finanziamento a uomini del clan. Ai suoi avvocati - Eugenio Minniti e Marco Tullio Martino - per dimostrarlo è bastato spulciare gli atti di tre anni di amministrazione, le singole assegnazioni, dirette solo nei casi di lavori da pochi centinaia di euro, e sempre affidati alla stazione unica appaltante provinciale, anche sotto soglia, proprio per fugare ogni dubbio di interferenze. Anzi, i giudici, in sentenza, hanno messo in evidenza «una serie di attività dell’amministrazione (...) finalizzate a contrastare il fenomeno mafioso ed improntate al rispetto della legge, del tutto confliggenti con gli interessi del gruppo criminale». I clan, insomma, li aveva combattuti. E tutto il resto è «un quadro probatorio del tutto privo di significatività». Femia quell’etichetta assegnatagli d’ufficio non l’ha mai accettata. Ed è per questo che ora ha deciso di farsi promotore dei quesiti. «Non chiediamo chissà cosa: chi sbaglia è giusto che paghi - sottolinea -. Ma se una persona non commette un reato non deve pagare. E, soprattutto, non è giusto che paghi prima che sia certo che quel reato c’è stato». Il quesito che più gli sta a cuore è senza dubbio quello sul carcere. Di celle ne ha viste tre, in quei cinque lunghi anni. La prima a Reggio Calabria, «un cunicolo con 4 letti a castello, con cemento grezzo a terra, scarafaggi e topi che ci passavano sulla testa mentre dormivamo». Poi a Palermo, dove i detenuti subivano controlli notturni della polizia penitenziaria e la battitura continua, «un rumore che mi è rimasto in testa». Vibo Valentia, infine, era «un lager». Poi c’è il quesito sulla legge Severino, che lo tocca anche come ex amministratore. «Non è costituzionalmente corretto che un politico venga fatto fuori prima che una sentenza sia definitiva: si è innocenti fino a quel momento. E vorrei dire anche che una volta pagato il debito con la giustizia è giusto potersi rifare una vita», dice. Ma anche la separazione delle funzioni «è fondamentale: non è possibile che si possa saltare da una parte all’altra: il giudice deve essere libero di giudicare e non essere “pressato” dal pm». Quelli del 12 giugno, assicura però, non sono referendum contro i magistrati. «Anzi, l’obiettivo è aiutarli a lavorare nella massima trasparenza, onestà e chiarezza, senza pressioni - conclude -. Sono cose che loro stessi dovrebbero pretendere».