Ammanettato in albergo, trattato da criminale, costretto a rinunciare agli appalti. E ora, a distanza di soli due anni, assolto, mentre l’azienda di cui era titolare è ormai morta. La storia è quella di Francesco Clemente, 53 anni, ingegnere, con un piccolo passato in politica al fianco di Pierferdinando Casini, che lo ha portato a vestire i panni di consigliere provinciale. Clemente, due anni fa, viene arrestato, con le accuse di associazione a delinquere semplice e due imputazioni per traffico di influenza illecita. L’imprenditore rimane ai domiciliari 21 giorni. Tanto basta per ridurre una vita di sacrifici in brandelli.

L’assoluzione è stata pronunciata dalla Corte d’appello di Messina mercoledì scorso, nell’ambito del processo ' Terzo Livello'. L’accusa è convinta che Clemente faccia parte di un comitato d’affari in grado di fare pressione su uffici comunali o aziende partecipate in modo che le istanze avanzate dagli imprenditori considerati “amici” avessero esito positivo. Il tutto per acquisire consenso anche in prospettiva elettorale. Le accuse sembrano subito abnormi. Anche perché quanto contenuto nelle carte non trova riscontro nei fatti. A partire dalle intercettazioni, in alcuni casi carenti, in altri stravolte nel loro significato. Clemente finisce ai domiciliari a causa dell’accusa di associazione a delinquere. Il giorno dell’arresto, il 2 agosto 2018, si trova a Roma per lavoro. Titolare di un’azienda, si sta occupando di un appalto milionario per il pubblico. Ma lo stesso viene revocato nella stessa giornata, circa sei ore dopo. Quattro agenti della Dia fanno irruzione nella sua stanza d’albergo, per poi essere identificato e ficcato in un’auto per arrivare fino a Messina. Un viaggio lunghissimo, con la lettura dell’ordinanza come unico svago. «Nello stesso giorno - si legge in una nota dei suoi difensori, Nunzio Rosso e Tommaso Autru Ryolo veniva diffusa l’intervista di uno degli investigatori che, tra l’altro, evidenziava trattarsi di un indagine da manuale con metodo poliziesco, manifestando l’orgoglio per indagini così chiare e semplici e la grande professionalità di coloro che avevano fatto luce grazie ad investigatori illuminati». L’interrogatorio di garanzia si volge il giorno dopo. Clemente non ha potuto leggere null’altro che qualche pagina dell’ordinanza di custodia cautelare, piena zeppa di conversazioni inutili o stravolte, e senza aver potuto parlare con il proprio avvocato. Non ha potuto parlare con il suo avvocato e arriva davanti al gip, dunque, completamente impreparato. L’ingegnere si limita a pronunciare molti «non ricordo». Nelle tre settimane ai domiciliari, però, ha tempo di leggere tutto. E di rendersi conto delle stranezze dell’inchiesta.

Quelle stranezze decide di portarle davanti al giudice del Riesame, dove si svolge il primo vero contraddittorio. L’esito è esemplare: l’arresto viene considerato illegittimo, perché manca la gravità indiziaria. E la Procura decide di non impugnare la decisione. I giudici, nelle loro motivazioni, parlano chiaro: la ricostruzione della Procura «non appare sostenibile seppur con il grado di qualificata probabilità richiesto dal contesto cautelare». Anzi, più che sottolineare una sua complicità con l’imputata principale del processo, dimostra la sua distanza da tali logiche. Ciò nonostante, il pm decide di chiedere - ed ottiene - il rinvio a giudizio. Il primo grado finisce con un’assoluzione per il reato associativo e da uno dei due episodi di reato contro la pubblica amministrazione per insussistenza del fatto, pronunciando condanna per l’altro. Tocca, dunque, aspettare un nuovo processo. Che si è concluso mercoledì, con il riconoscimento della sua totale estraneità ai fatti. Una gioia, certo, ma nel frattempo la sua azienda è costretta a dichiarare fallimento. E per la sua assoluzione i titoli di giornali sono meno roboanti rispetto a quelli del suo arresto. «Questa è una delle tante vicende giudiziarie dolorose che se da un lato deve consolidare la fiducia nel senso di giustizia ( che alla fine nella maggioranza dei casi viene resa), dall’altro conduce a serie riflessioni sui tempi della giustizia e sulle conseguenze connesse al coinvolgimento in un procedimento penale specie ove siano intervenuti provvedimenti privativi della libertà - commentano oggi gli avvocati -. Nel frattempo, invero, Clemente è stato arrestato ( e non doveva esserlo), processato e condannato ( ed oggi possiamo dire che non era la soluzione corretta). In tali vesti ( arrestato, imputato e condannato) - continuano i difensori - è apparso sui mezzi di informazione con particolare risonanza e clamore; è stato visto in famiglia e nel mondo delle sue relazioni personali e sociali, spesso con qualche forma più o meno velata di distanziamento, travolto nel suo lavoro a causa dei risvolti e dalle conseguenze della esistenza del processo a carico e dell’arresto. Clemente ha pagato tanto, moltissimo, troppo per un debito rivelatosi non esistente».