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Dunque un banale processo per diffamazione sarebbe, numeri alla mano, il processo del secolo. L’hashtag che inneggiava alle ragioni del bel tenebroso è stato cliccato, dicono, un miliardo e 200mila volte. I video delle udienze non hanno rivali in termini di visualizzazioni sulla rete. Media di tutto il mondo, per conseguenza, hanno dato alla vicenda ed al suo esito il massimo rilievo. È del tutto ovvio che la notorietà planetaria dei protagonisti da un lato, e la strettissima privatezza delle tematiche trattate dall’altro, abbiano costituito la miscela esplosiva che ha fatto deflagrare questa formidabile, morbosa attenzione della pubblica opinione. Piaccia o meno, nulla può funzionare meglio, in termini di attenzione mediatica, che consentire di guardare dal buco della serratura la vita privata di un idolo. Quello su cui però sarebbe utile - e forse doveroso - soffermarsi, è come tutto ciò possa conciliarsi con un processo, e dunque con la serenità ed equità del suo svolgimento e della sua decisione. Il tema è annoso, e ci interroga su una questione cruciale: quali siano, o meglio quali debbano essere in una società democratica i limiti di esposizione mediatica di un processo. Ma una riflessione si impone. Questo che da più parti è stato definito “uno zoo”, era un dibattimento, cioè una fase procedimentale fatta di udienze pubbliche, dove la prova si forma davanti al giudice che ne governa le regole, ed alla giuria popolare che pronuncerà la sentenza. Un processo civile (cioè destinato a concludersi con sanzioni risarcitorie, non con pene detentive), ma per il resto del tutto assimilabile ad un processo penale. Nulla a che fare - questa è la riflessione - con la vergogna alla quale siamo abituati nel nostro Paese, dove l’esposizione delle bestie in gabbia avviene quasi esclusivamente prima del dibattimento, cioè prima della fase pubblica della vicenda giudiziaria. In Italia, come è noto, l’attenzione morbosa, l’interesse mediatico, il dibattito sui media e sui social, e dunque il giudizio sociale di innocenza o di colpevolezza, si consuma sempre nella fase nella quale dovrebbe invece imporsi la più assoluta segretezza degli atti. Viene perciò da sorridere, ed anche forse da indignarsi, nel leggere commenti pensosamente critici sulla indubbia sguaiataggine di questa vicenda processuale americana, pensando però ai giochi al massacro che qui si consumano su persone solo indagate, assistite inutilmente dalla presunzione costituzionale della propria innocenza, e svergognate - per esempio - nelle loro conversazioni telefoniche squadernate sui giornali o nelle “inchieste” giornalistiche televisive, mesi o spesso anni prima del processo, a seguire il quale, ovviamente, non andrà più nessun cronista, come infatti puntualmente accade nelle nostre aule giudiziarie. È comprensibile che i difensori della signora Amber Head abbiano attribuito alla idolatrata notorietà di Depp, e dunque alla forse imprudente decisione di ammettere le telecamere in aula, l’esito sfavorevole del processo deciso da una giuria inevitabilmente condizionata da un simile putiferio. Ma chissà cosa direbbero i colleghi se sapessero che qui in Italia le conversazioni telefoniche le avremmo lette ben prima del dibattimento sul Fatto Quotidiano, i video delle liti casalinghe presentate con orgoglioso ghigno digrignante da Sigfrido Ranucci su Report, mentre Kate Moss sarebbe stata previamente intervistata da Barbara D’Urso su Canale 5; e tutto ciò in nome del diritto di cronaca e del diritto della pubblica opinione ad essere informati. Chissà cosa direbbero, se sapessero che la loro assistita sarebbe stata processata e verosimilmente condannata anni prima del processo, ed a prescindere da esso. Prima del quale sarebbero stati già pubblicati almeno un paio di libri contenenti tutti gli atti coperti da segreto; mentre sulla vicenda sarebbe stata prodotta - sempre prima del processo - una serie televisiva dal titolo, chessò, “Mafia Casalinga”. E chissà cosa direbbero se sapessero che qualunque proposta di legge volta a prevenire simili vergogne, sarebbe naufragata a furia di girotondi e manifestazioni contro le “leggi bavaglio”. Voi, cari colleghi, protestate, non senza ragione, per questa celebrazione mediatica planetaria del processo; ma credetemi, per come siamo messi noi qui, non riusciamo a fare altro che invidiarvi.