È un grido disperato. Arriva da un manipolo di italiani presi in ostaggio: gli imprenditori. A far levare l’appello contro il parossismo di «leggi che fermano il Paese anziché la corruzione» è in particolare l’Ance, Associazione nazionale costruttori. Bersaglio nel bersaglio, categoria più esposta alla scure di misure di prevenzione e interdittive.

«Nate come strumento eccezionale, le misure di prevenzione tendono ad assumere il carattere di diritto comune e rappresentano un sottosistema parallelo al diritto penale» : la definizione è scolpita nel “Manifesto del diritto penale liberale” elaborato dall’Unione Camere penali, il cui presidente Gian Domenico Caiazza è tra le figure chiamate in soccorso al convegno organizzato ieri a Roma dall’Ance, appunto, sulla “Presunzione di ( non colpevolezza)”.

È lo stesso Caiazza a leggere il “canone” del suo “Manifesto” e a rinnovare l’allarme contro la tendenza a «considerare le garanzie costituzionali, innanzitutto quella del giusto processo, non come principi inviolabili ma come riserva da erodere ogni qual volta si paventa un’ emergenza sociale» . E invece le «misure di prevenzione» , per citare ancora il “Manifesto” dell’Ucpi dovrebbero «avere lo statuto di garanzie della materia penale» e «il requisito della massima tassatività» .

Ora, come può salvarsi quel manipolo ( che in realtà annovera, famiglie comprese, alcuni milioni di italiani) dal delirio panpenalistico? A furia di essere stritolati, i costruttori cercano una via d’uscita. Il convegno moderato dal direttore del Foglio Claudio Cerasa «è un primo passo», dice il vicepresidente dell’Ance Edoardo Bianchi, «insieme con il nostro pamphlet sui parossismi della disciplina anticorruzione: dall’estensione ai reati contro la Pa delle norme antimafia al daspo a vita della spazza corrotti».

Al convegno l’Ance chiede aiuto, oltre che ai penalisti, a due istituzioni nazionali del pensiero giuridico come Sabino Cassese e Carlo Nordio. Ne viene un’indicazione comune: portare tra i cittadini la verità. «A cominciare dalle conseguenze di un reato come l’abuso d’ufficio», auspica Bianchi, «da cui discende la cosiddetta paralisi della firma, con i funzionari che non si assumono più responsabilità, esattamente come i medici. Quel reato va riperimetrato». Ma come dice Nordio, ci si arriva solo se si capovolge la visuale di un’opinione pubblica abituata a sfamarsi con le manette.

«Iniziative come questo convegno saranno allargate innanzitutto al mondo della pubblica amministrazione», assicura Bianchi, «ai funzionari, quelli che vivono con l’incubo dell’indagine per abuso d’ufficio, i primi da cooptare nella campagna. Poi», confida il vicepresidente dell’Ance, «mobiliteremo i nostri dipendenti, i 5 milioni di famiglie che vivono attorno al nostro settore, per diffondere una vera conoscenza dei problemi. Lo faremo anche grazie ai cittadini che spesso incontriamo e che fanno i conti con la paralisi delle opere legata proprio all’irrazionalità delle norme. Penso a incompiute come il viadotto da Ostiense a Garbatella».

Una rivoluzione dal basso. Contro la logica delle manette che, anziché la corruzione, ferma le imprese, cioè l’economia. Vecchio conflitto. Ma ora le vittime più esposte provano a spezzare le catene.

«Cari costruttori», li incoraggia Nordio, «portate in giro il vostro libello e battetevi per le sole riforme in grado di contrastare la corruzione: l’abuso d’ufficio va tipizzato per evitare a paralisi, vanno eliminate le troppe leggi che spesso entrano in conflitto e attribuiscono al potenziale corrotto un enorme potere di interpretazione che diventa arbitrio».

In una parola «semplificare», dice l’ex procuratore aggiunto di Venezia ed editorialista del Messaggero. «Passare dal sospetto alla fiducia», chiede Gabriele Buia, che dell’Ance è presidente. «Riscrivere praticamente per intero il nostro diritto penale», suggerisce l’amara ironia di Cassese. «Al tempo del governo Renzi vennero estese le misure antimafia alla Pa, l’esecutivo M5S- Lega ha reso un rinvio a giudizio causa di esclusione dalle gare: la tendenza è bipartisan e né gli uni né gli altri si chiedono perché un funzionario con 1500 euro al mese di stipendio dovrebbe rischiare di farsi confiscare tutto per una firma». Nessuno se lo chiede. Tra i politici. Ma il grido di disperazione, dal basso, comincia a irrobustirsi.