«Si sarebbe potuto fare di più» per Susan John la detenuta che si è lasciata morire di fame e di sete nel carcere di Torino. Lo dice all'AGI Vincenzo Semeraro, il giudice della Sorveglianza di Verona che un anno fa chiese «scusa per aver fallito» quando una delle recluse che seguiva da anni nel suo percorso di rieducazione, Donatella Hodo, si uccise a 27 anni in cella a Verona. «La storia di Susan John colpisce in modo particolare anche pensando al modo in cui ha deciso di porre fine alla sua esistenza. Come nel caso di Donatella Hodo, forse, si sarebbe potuto fare di più per acquisire la fiducia della ragazza per far sì che continuasse a nutrire speranza in un domani che sicuramente sarebbe stato migliore finalizzato, come sarebbe stato, alla cura dei figli che tanto amava. Che cosa in concreto si poteva fare? Non saprei dire con precisione se non che i detenuti, e in particolare le donne private della libertà personale, hanno bisogno di essere ascoltati per fargli comprendere che la pena non è la chiusura definitiva per un'esistenza “normale”».

Il caso della donna nigeriana solleva anche il problema della nutrizione forzata. «Occorre chiedersi se sia legittimo un intervento della pubblica autorità e, per rispondere a questa domanda, bisogna partire dai principi costituzionali che sono alla base dell'habeas corpus contemporaneo della persona - riflette il magistrato -. Per il solo fatto di essere sottoposto al controllo dello Stato per tramite dell'ordinamento penitenziario, la persona non perde i propri diritti fondamentali, la cui tutela deve continuare a essere assicurata. Le limitazioni alla libertà personale e ai diritti a essa connessi sono consentite solamente entro gli stretti limiti della Costituzione e delle leggi penali. Se così non fosse, si giungerebbe alla negazione della dignità umana, trasformando la detenzione in un trattamento contrario al senso di umanità, in contrasto con la Costituzione e con la Cedu. E tra i diritti fondamentali non sacrificabili ci sono il diritto alla salute e quello all'autodeterminazione terapeutica».

Questo significa che «anche nel contesto carcerario si impone la necessità di rispettare la volontà della persona rispetto alle cure e ai trattamenti sanitari, in quanto espressione della sua dignità». Tuttavia il discorso si complica quando si scende nel caso particolare del singolo detenuto.«L'indagine sulla reale volontà di astenersi dall'alimentazione e dalla idratazione deve essere condotta in maniera molto penetrante perché non si può negare che il contesto in cui il recluso si trova non incida, anche in maniera rilevante, sulla sua determinazione. Le mura di una cella non coartano solo la libertà di movimento, ma anche la reale autocoscienza e la libertà di effettiva autodeterminazione».

Susan John era rinchiusa in un reparto delle Vallette destinato a chi ha manifestato problemi di salute mentale. Da quando Hodo si tolse la vita inalando troppo gas spingendo Semeraro a scrivere una lettera per il suo funerale in cui esprimeva anche il suo affetto per lei, il giudice dice che è cambiato "molto poco"». In questi giorni di agosto, mese per tradizione molto difficile nelle carceri quando aumentano problemi e suicidi, Semeraro è da solo nonostante sia prevista la presenza di quattro giudici della Sorveglianza. «E' il frutto di una sfortunata congiunzione astrale: alla fine dello scorso anno la pianta organica dell'ufficio è stata aumentata da tre a quattro magistrati, con il riconoscimento che il carico di lavoro era tale da dover essere fronteggiato da un magistrato in più rispetto a quelli del precedente organico. Nel frattempo, però, dei tre presenti, una è andata in pensione e un altro è stato eletto al Csm. La situazione migliorerà a metà settembre quando arriverà un collega dalla Cassazione. Gli altri due posti saranno coperti tra gennaio e febbraio del prossimo anno».

Semeraro ritiene che l'individuazione di nuove strutture per i detenuti, annunciata dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, possa essere «solotanto un rimedio temporaneo, episodico». «Occorre, invece, un intervento ben più sistematico. Penso alla possibilità di allargare la fruibilità di misure alternative per i detenuti con problemi di tossico o alcoldipendenza, penso alla individuazione di strutture sanitarie dove inserire i detenuti con patologie psichiatriche, che non di rado sopravvengono proprio in carcere. Si possono anche individuare caserme dismesse per collocarci i detenuti, ma, poi, bisognerebbe reperire personale di Polizia Penitenziaria e, soprattutto, personale dell'area dducativa, psicologi, psichiatri, medici da adibire alla assistenza, prima di tutto, e alla vigilanza di quei detenuti, che, altrimenti, finirebbero per essere chiusi tra quattro mura e là dimenticati».

La sicurezza, secondo il magistrato, è necessaria per permettere agli operatori di lavorare con serenità. «Il trattamento deve essere un'opera sartoriale: un “abito” cucito su misura a seconda delle esigenze del singolo condannato. Ovvio che, per ottenere tale risultato, sarebbe necessario avere un maggior numero di educatori, di psicologi, di psicoterapeuti, di medici. E' altrettanto ovvio, però, che tale personale deve essere posto in condizione di lavorare in tranquillità».