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A un bimbo piccolo, malato cardiaco grave, è stato negato di avere al suo fianco, per solo due ore, il padre detenuto non definitivo durante un particolare esame invasivo. Deborah Morano, la madre del piccolo, non si capacità di questa visita negata. La considera una ingiustizia, soprattutto nei confronti del piccolo che non ha colpe e che desiderava il padre al quale è affezionato e che non vedeva da mesi. «Il Procuratore generale giustifica l’aver negato la visita perché secondo lui il bimbo “non è in pericolo di vita”», racconta a Il Dubbio Deborah. «Sono magistrati medici o padreterni? – si chiede Deborah- Fin dove si può spingere la libertà di interpretazione di una legge rispetto all'umanità?». Si chiede ancora la madre del piccolo: «Il desiderio di un bambino malato di essere accanto al suo papà, né omicida né pericoloso, può essere sottovalutata da un uomo che indossa una toga?». La storia giudiziaria che riguarda Giuseppe Morabito, il padre del bimbo, è complicata. Si professa innocente, l’accusa è di aver partecipato ad una associazione per lo spaccio di marijuana, poi c’è il cognome che non aiuta e a Milano ( è lì che si era trasferito con la famiglia) ed essere indagati con quel cognome evoca facilmente l’omonima cosca della ‘ ndrangheta.
«Visto il parere contrario del Pg,- si legge nella decisione- ritenuto che non sussistono i presupposti cui all'art 30 legge penitenziaria per le ragioni esposte nello stesso parere, rigetta l'istanza». Questo il rigetto della Quinta Sezione Corte d’Appello di Milano all’istanza che Giuseppe Morabito, detenuto nel carcere di Voghera per il reato dell’art 74 della legge stupefacenti, aveva avanzato per poter essere autorizzato a recarsi all’Ospedale Niguarda di Milano a fare visita al figlio di 4 anni nella mattina del giorno in cui sarebbe stato lì ricoverato per accertamenti diagnostici, una biopsia e coronografia cardiaca. Morabito non vedeva da parecchi mesi il figlio a causa della malattia, che impediva al bimbo di recarsi a effettuare i colloqui con il padre. Il motivo del rigetto? Il colloquio non rientrava nelle ipotesi di permesso premio previste dall'art 30 dell'ordinamento penitenziario. Così scrive la Corte, rinviando in toto alle argomentazioni del parere negativo della Procura Generale, secondo la norma citata dell'ordinamento penitenziario «nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare, può essere concesso il permesso di recarsi a visitare l'infermo con le cautele del regolamento». La stessa istanza, a gennaio 2019 era stata avanzata contestualmente anche al Gip di Milano, che a marzo dell’anno scorso aveva emesso la sentenza, oggi impugnata avanti la Corte d’Appello. Cosi mentre quest’ultima rigettava, facendo proprie, le argomentazioni del Procuratore Generale che dava parere sfavorevole, il Gip riteneva la stessa richiesta «meritevole di accoglimento in ragione dei problemi di salute del figlio». Per questo, preso atto anche del parere favorevole del Pubblico ministero, autorizzava il padre a recarsi all’Ospedale Niguarda «con la scorta in giornata». Infatti era tutto pronto, gli agenti del carcere di Voghera si stavano preparando per scortare Giuseppe. Poi la doccia fredda: il rigetto della Corte d’Appello. C’è da aggiungere un particolare: Giuseppe Morabito non sta scontando una condanna definitiva, ma è detenuto in misura cautelare. Lo stesso Pm che un anno fa aveva chiesto l’applicazione della custodia preventiva, come titolare dell’indagine, non ha avuto dubbi nell’autorizzare Morabito a recarsi con la scorta in Ospedale dal figlio di 4 anni. L’argomento è anche quello del diritto alla genitorialità, ma anche il diritto del minore alla continuità del proprio legame affettivo con il genitore detenuto. Del resto è nell’art 3 della Cedu, quello che vieta i trattamenti degradanti e disumani durante la detenzione, che si inserisce la tutela del benessere del minore, per cui la detenzione del padre ( viste ancora le profonde disparità rispetto alla maggiore “attenzione” data al ruolo della madre) non può essere di intralcio né ai diritti del bambino, né a quelli del detenuto genitore.