Nei nostri penitenziari c’è una percentuale non indifferente di persone affette da una patologia che può portare a compiere dei reati. Lo studio italiano è ancora in fase preliminare, me se confermato può aprire a una messa a discussione del carcere come risoluzione di quei problemi che in realtà dovrebbero essere presi a carico dai Dipartimenti di Salute Mentale.

Parliamo del Deficit dell’Attenzione e Iperattività (ADHD), un disturbo del neurosviluppo che presenta un’elevata ereditabilità, solitamente viene diagnosticato nell’infanzia e può persistere nell’età adulta. Se non trattato adeguatamente, soprattutto in casi più gravi può causare un peggioramento dei sintomi e accompagnarsi ad altre patologie psichiatriche più gravi, come i disturbi di personalità, l’abuso di sostanze, i disturbi antisociali e borderline. Non seguite, inevitabilmente si isolano e quindi diventato sensibili ai gruppi che in qualche forma li accettano, diventando facile preda anche di gang criminali. Come attesta l’istituto superiore di sanità, gli adulti con Adhd possono avere le stesse difficoltà dei minori, alcuni hanno anche problemi con la droga, la criminalità o il lavoro. Viene evidenziata l’aumentata probabilità di commettere reati di vario genere e, conseguentemente, di andare incontro a problemi giudiziari. I dati direbbero che un uomo con Adhd ha il 37% di probabilità di commettere un reato rispetto al 9% di un maschio che non ha questo disturbo. Per le donne il rapporto è 15% contro 2%.

Nel 2021, a firma delle dottoresse Irene Strada, Vincenza Tesoro e Elena Anna Maria Vegni, è stato pubblicato uno studio pilota sulla prevalenza del disturbo da deficit d’attenzione e iperattività nella popolazione detenuta italiana. Una ricerca, però, che ha preso come campione un solo carcere, ovvero quello di Milano- Bollate. Hanno raccolto un campione di 59 soggetti: dalle analisi effettuate, è stata stimata una prevalenza di Adhd nell’infanzia e/ o nell’età adulta del 23,7%; di tale percentuale, nel 64,3% del campione persistono i sintomi nell’età adulta.

Dal campione analizzato, la prevalenza dell’Adhd rilevata risulta in linea con i risultati presentati nella letteratura internazionale. Viene inoltre confermata l’elevata comorbilità tra il disturbo e l’abuso di sostanze e i sintomi depressivi. Seppur preliminare, lo studio sottolinea l’importanza della diagnosi di Adhd anche nella popolazione detenuta, al fine di evitare un effetto negativo cumulativo sul funzionamento del soggetto ristretto, ed evidenzia la necessità di individuare programmi terapeutici specifici che possano implementare le capacità interpersonali ed intervenire sul rischio di recidiva e, non da ultimo, sull’abuso di sostanze. Quindi, seppur lo studio presenti risultati preliminari, l’elevata prevalenza dell’Adhd viene confermata anche nel contesto penitenziario italiano. Ricordiamo che in Gran Bretagna ne hanno già parlato, facendo emergere un dato significativo: ovvero che tra il 25 e il 40% dei detenuti avrebbe l’Adhd. Dati tanto allarmanti che l’intergruppo parlamentare (membri di tutti i partiti) di Westminster, tre anni fa hanno proposto da poco che tutte le persone tra i 12 e i 20 anni arrestate per “crimini impulsivi” (risse, furti di biciclette, furti nei negozi ecc.) siano sottoposte a test/ screening per l’Adhd. Le recidive, la possibilità di reiterare il reato, sono assai alte se non vi è diagnosi e non si cerca di curarli, dicono anche al ministero della Giustizia inglese.

E da noi? Lo studio pilota italiano fa evincere l’importanza della diagnosi e di un intervento mirato sull’Adhd nella popolazione detenuta: infatti – sottolinea lo studio - «il trattamento dell’Adhd in carcere potrebbe portare ad una riduzione dei comportamenti disfunzionali e un miglioramento nelle capacità di autocontrollo e di regolazione emotiva». I detenuti Adhd infatti appaiono frequentemente impulsivi e reattivi, instabili dal punto di vista emotivo e con una bassa soglia di tolleranza alla frustrazione. Sempre lo studio pilota, osserva che programmi specifici sulla sintomatologia Adhd potrebbero ridurre il tasso di recidiva e indirettamente migliorare le condizioni in comorbilità, come il disturbo antisociale e il disturbo di personalità borderline, l’abuso di sostanze e la dipendenza, l’ansia, la depressione e il rischio suicidario.

Più avanti, lo studio sottolinea che le terapie cognitivo- comportamentali potrebbero favorire una modificazione delle distorsioni cognitive dei pazienti Adhd, migliorare il controllo cognitivo e modificare i comportamenti disadattivi. Training delle funzioni esecutive, invece, potrebbero avere un effetto positivo sui deficit cognitivi caratteristici della sintomatologia Adhd e così comportare un miglioramento generale del quadro clinico. Ad oggi – osserva sempre lo studio -, «in letteratura è stata dimostrata l’efficacia del Programma R& R2 strutturato per la popolazione detenuta, che ha comportato un miglioramento dell’Adhd e dei disturbi ad essa correlati, mantenendo anche un effetto continuativo ad un follow up di tre mesi».

Come detto, questo studio è da considerarsi una ricerca pilota, che presenta conseguentemente degli evidenti limiti: la numerosità campionaria e l’applicazione dello studio in un unico carcere del territorio milanese non permettono una generalizzazione dei risultati a tutta la popolazione carceraria; la valutazione è inoltre stata basata solamente su questionari self- report, che aumenta il rischio di trovare falsi positivi e falsi negativi. Inoltre, la procedura di screening, a differenza della procedura diagnostica, non permette totalmente di escludere che i sintomi Adhd riferiti non possano costituire la manifestazione di una differente condizione clinica comunemente associata ad un quadro di disattenzione e iperattività. E’ stata inoltre considerata la lunghezza della condanna come una misura indiretta della tipologia di reato: ciò non ha permesso di individuare un’associazione tra reato e Adhd, come invece evidenziato dalla letteratura internazionale. Lo studio osserva che ciò potrebbe essere giustificato, oltre dal tipo di misurazione usata, dal non aver considerato le condizioni associate ai comportamenti devianti, che potrebbero modulare l’associazione tra Adhd e il reato, quali la comorbilità con un Disturbo della Condotta o con il Disturbo di Personalità Antisociale. Infine, nello studio sono stati indagati solamente i disturbi dell’umore: risulta importante includere nelle future ipotesi di ricerca i disturbi di personalità, in particolare il disturbo Borderline e il disturbo Antisociale, per i quali l’Adhd risulta costituire un fattore di rischio.

Non è una questione di poco conto. Oltre al discorso carcerario, c’è anche quello giudiziario. Come ha ben spiegato su Redattore sociale l’avvocato e professore di Diritto processuale penale e di Diritto penitenziario Gianluca Varraso, «l’imputato affetto da patologie psichiatriche potrebbe addirittura non essere in grado di partecipare con piena consapevolezza al processo, ancor prima di poter ottenere il riconoscimento in sentenza della propria malattia, ai fini dell’assoluzione o di una diminuzione di pena. Spetta, anzitutto, al difensore vigilare affinché tale stato patologico venga conosciuto dall’autorità procedente, profilo essenziale anche nell’ottica di garantire che eventuali misure limitative della libertà personale siano conformi alla sua situazione personale».