La fuga, il giorno di Natale, di sette giovani detenuti dal carcere minorile di Milano “Cesare Beccaria” ha riportato alla ribalta il tema delle condizioni di vita negli istituti penali minorili. «I riflettori - spiega al Dubbio Adolfo Ceretti, ordinario di Criminologia nell’Università di Milano - Bicocca, coordinatore del gruppo di lavoro per l’attuazione della riforma Cartabia in tema di giustizia riparativa - si sono accesi quando sono emersi fatti drammatici, che però erano già stati ampliamente osservati e monitorati dal Dipartimento di Giustizia minorile e di Comunità».

Quanto accaduto il 25 dicembre scorso è il risultato di una serie di situazioni sedimentatesi dopo l’emergenza pandemica. «L’allarme sulla situazione critica all’interno di tutti gli Ipm d’Italia, non solo il “Beccaria” di Milano – afferma Ceretti -, è scattato ben più di un anno fa, quando, dopo il periodo Covid, in cui negli istituti è prevalsa, inaspettatamente, una sorta di bonaccia, sono emerse vecchie e nuove criticità. Dopo l’emergenza pandemica, con il progressivo normalizzarsi della vita all’esterno negli Ipm, al contrario, la tensione, fino a quel momento contenuta, è lentamente ma inesorabilmente salita. Tutti i problemi che si erano congelati durante i mesi più duri del Covid si sono presentati con delle modalità fino ad allora quasi inedite.

Abbiamo così assistito sempre più spesso da parte degli adolescenti in conflitto con la legge ad atteggiamenti di insubordinazione nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria, agli incendi di materassi e delle camere di pernottamento, fino ad arrivare alle violenze interpersonali.

Fatti che hanno toccato le sensibilità di tutti gli operatori e della dirigenza degli Istituti penali minorili. Ragion per cui il Dipartimento di Giustizia minorile ha prontamente attivato dei gruppi di lavoro per studiare i mutamenti repentini ai quali abbiamo assistito nelle carceri minorili». I fatti del Beccaria non sono al tempo stesso il sintomo di una sottovalutazione della giustizia penale minorile. Secondo il professor Ceretti non è stata trascurata negli ultimi anni.

«Nel 2017 – aggiunge - ho fatto parte della Commissione che ha contribuito a redigere il Dlgs 121/ 18, che disciplina, come è noto, l’esecuzione delle pene nei confronti dei minorenni.

Dopo decenni di attesa, finalmente, è entrato in vigore l’ordinamento penitenziario minorile. L’apposita Commissione istituita dall’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha portato a termine un lavoro complesso, che, oltre ad introdurre le misure penali di comunità, ha rivolto molta attenzione all’intervento educativo all’interno degli istituti. L’articolo 2 del Decreto, nel delineare le regole e le finalità dell’esecuzione, si sofferma sul favorire i percorsi di giustizia riparativa e di mediazione con le vittime di reato. Nello specifico, si intende favorire la responsabilizzazione, l’educazione e il pieno sviluppo psico- fisico del minorenne. Tutto finalizzato all’inclusione sociale e alla prevenzione di ulteriori reati, mediante percorsi di istruzione, formazione professionale ed educazione alla cittadinanza attiva responsabile. Ogni istituto avrebbe dovuto redigere un regolamento interno, ispirato a questi principi. Ma l’avvento del Covid ha rallentato anche questo iter. Recentemente, interpellato dal Dipartimento, ho insistito molto sul fatto che all’interno degli istituti venga promossa nei confronti dei minori una “responsabilità riflessiva”».

Un altro tema che Adolfo Ceretti tiene a porre all’attenzione riguarda il rapporto tra la giustizia riparativa e le carceri minorili. «Anche la giustizia riparativa – commenta l’accademico - va pensata nel solco tracciato da queste parole. Sostanzialmente, essa non può, di fatto, divenire uno strumento per delegare ai mediatori “funzioni di controllo” all’interno di un istituto. La giustizia riparativa, che si concretizza secondo alcuni principi ormai ben noti, si pensi alla partecipazione consensuale, alla confidenzialità, alla valorizzazione della dimensione relazionale, alla riparazione come ricucitura di una relazione interrotta, può operare proficuamente con riferimento allo svolgersi della vita intramuraria solo se tutti coloro che compongono questa particolare “comunità sociale”, mi riferisco ai detenuti, al personale di polizia penitenziaria, agli educatori, al direttore, al personale amministrativo, si rendono disponibili a essere potenzialmente coinvolti nei cammini di pacificazione. In buona sostanza, sono questi alcuni orientamenti che vedo necessari per contrastare il momento così drammatico che gli Istituti stanno vivendo».