Il caso dell’anarchico Alfredo Cospito che rischia di morire da un momento all’altro al 41 bis, traferito da Sassari a Opera, apre di nuovo il dibattito sul carcere duro. Anche se, sulla carta, tale regime non dovrebbe essere definito in questi termini. Secondo l’ultimo rapporto di Antigone, al novembre 2021, le persone al 41 bis sono 749 (13 donne). Per avere dati di maggior dettaglio occorre analizzare quelli della Relazione annuale del ministero sull’amministrazione della Giustizia, aggiornati al novembre 2020, quando le persone al 41bis erano 748 (731 uomini e 13 donne, a cui si aggiungono 4 internati, tutti uomini), distribuite in 12 istituti penitenziari della Penisola, con una sola sezione femminile e una casa di lavoro per persone in misura di sicurezza. Si tratta di numeri in linea con quelli dell’anno precedente (2019), quando si contavano 747 persone (735 uomini e 12 donne).

Come detto in premessa, il 41 bis non dovrebbe essere definito un “carcere duro”, perché questo concetto implica in sé la possibilità che alla privazione della libertà – che è di per sé il contenuto della pena detentiva – possa essere aggiunto qualcos’altro a fini maggiormente punitivi o di deterrenza o di implicito incoraggiamento alla collaborazione. Eppure, di fatto, viene percepito come se questa fosse la sua ratio. Non è così.

La sua funzione viene cristallizzata dalla sentenza della Corte Costituzionale numero 376 del 1997: la misura del 41 bis è «volta a far fronte a specifiche esigenze di ordine e sicurezza, essenzialmente discendenti dalla necessità di prevenire ed impedire i collegamenti fra detenuti appartenenti a organizzazioni criminali, nonché fra questi e gli appartenenti a tali organizzazioni ancora in libertà: collegamenti che potrebbero realizzarsi – come l'esperienza dimostra – attraverso l'utilizzo delle opportunità di contatti che l'ordinario regime carcerario consente e in certa misura favorisce (come quando si indica l'obiettivo del reinserimento sociale dei detenuti "anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno”)».

Il 41 bis non è volto al ravvedimento del soggetto, non è volto a costringerlo a farlo collaborare, non è volto a punirlo oltre le garanzie previste dalla Costituzione e non è volto a tumularlo vivo attraverso un rinnovo automatico di tale regime. Il 41 bis nasce con un solo ed unico scopo: non permettere al capo di dare ordini alla propria organizzazione criminale di appartenenza. Tutte le misure afflittive in più sono inutili. Eppure ci sono.

Nel corso di questi anni, dalla Cassazione alla Consulta, qualche divieto è caduto. Pensiamo, solo per fare un esempio, alla sentenza della Corte costituzionale del 2018, nella quale si sancisce l’illegittimità della previsione dell’articolo 41-bis, comma 1-quater, lett. f) dell’ordinamento penitenziario in relazione al divieto della cottura di cibi in cella. Secondo la Consulta, tale divieto esula dalla finalità di prevenzione e difesa sociale, insita nel regime detentivo speciale: la considerazione per cui la previsione era stata concepita per impedire che tramite il cibo (come altri elementi di vita quotidiana, quei pochi che sono autorizzati a fare ingresso) il detenuto esercitasse il proprio “carisma criminale” sugli altri, non regge sul piano del bilanciamento dei principi, tra ragionevolezza e diritti soggettivi. Ricordiamo anche la sentenza della Cassazione del 2019 che ha sancito il diritto del detenuto al 41 bis di usufruire due ore di permanenza all’aria aperta.

C’è poi la questione del diritto alla salute. Per chi è al 41 bis, tale diritto risulta deficitario. Il problema dell’assistenza sanitaria in carcere riguarda tutti i detenuti, ma chi è nel regime differenziato la questione si complica. Ci viene in aiuto il rapporto tematico sul 41 bis del Garante nazionale reso pubblico il 5 febbraio del 2019, dove si osserva che «la qualità primaria della tutela della salute è tale da non ammettere deroghe di nessun genere, anche ricordando che la Costituzione, nel suo chiaro e stringato lessico utilizza l’aggettivo “fondamentale” solo per connotare tale diritto al suo articolo 32. La questione, peraltro, investe non soltanto la garanzia di una adeguata assistenza sanitaria ma anche la realizzazione di condizioni generali di salubrità della vita detentiva»; evidenziando, per vero, un quadro quantomeno preoccupante, rappresentato dalla prassi di taluni Istituti, di non dare luogo alla traduzione del detenuto recluso al 41 bis presso luoghi di cura esterni, o di ritardarlo, per indisponibilità di personale da applicare al servizio di vigilanza.

Il 41 bis fu istituito come misura emergenziale, perché la mafia corleonese era stragista. Il nostro Paese era sotto attacco e ha reagito annientando l’ala militare. Siamo nel 2023, ma ancora si ragiona in termini emergenziali rimasti fermi ai primi anni 90. Ogni passo costituzionalmente orientato, viene visto con sospetto. Eppure si tratta di affermare lo Stato di Diritto. Il caso dell’anarchico Cospito è un esempio estremo di questa degenerazione: raggiunto dal 41 bis, nonostante non sia capo di nessuna organizzazione. Parliamo di un anarchico individualista, come potrebbe mai dare ordini a qualcuno?