Le sezioni unite della Corte di Cassazione, con la sentenza 23300 del 2016 depositata lo scorso 16 novembre, hanno stabilito che il militare affetto da una patologia contratta a seguito di esposizione all'uranio impoverito faccia parte della categoria delle "vittime del dovere".La sentenza riguarda il caso di un militare deceduto per una rara forma tumorale dopo essere stato impiegato in missione operativa in Bosnia, territorio dove le forze della Nato avevano utilizzato in maniera massiccia munizioni arricchite con uranio impoverito. Per i giudici di piazza Cavour è sufficiente la motivazione del giudice sul nesso causale fra la malattia e gli agenti patogeni, oltremodo perché non è contestato l'impiego di uranio impoverito.Tale pronuncia ha un effetto particolarmente significativo: amplia alle famiglie dei militari deceduti la possibilità di fare domanda per i fondi stanziati dalla legge numero 266 del 2005, che ha fissato in 10 milioni di euro l'anno la spesa per indennizzare queste vittime.Com'è noto, gli Stati Uniti fecero massiccio uso durante la guerra contro Milosevic di munizioni anticarro all'uranio impoverito, utilizzate per il loro alto potere penetrante. I rischi delle esposizioni da uranio impoverito, alle Autorità italiane, furono noti da subito: nel 1999, quando al termine del conflitto prese il via la missione di pace internazione Kfor, l'U. S. Army divulgò un'informativa rivolta ai vertici militari di tutti i Paesi partecipanti sulla pericolosità delle neoparticelle di uranio impoverito, responsabili di provocare carcinomi letali. Il documento illustrava come difendersi dai rischi dovuti al contatto con l'uranio, allegando anche una cartina dove erano segnalate le zone bombardate con questo tipo di munizioni.Purtroppo lo Stato Maggiore della Difesa ha per anni sottovaluto questi rischi, minimizzando sempre i pericoli. Per ironia della sorte il settore di competenza italiana, la provincia di Pec, era quello dove maggiore era stato l'uso di questi proiettili.Ad oggi sono oltre 4000 i soldati italiani reduci dalla missione all'estero che hanno contratto un tumore. Molti di loro nel frattempo sono deceduti.La battaglia legale per vedersi riconosciuto un risarcimento dal ministero della Difesa è stata molto aspra. I circa 600 militari ammalati che hanno intentato una causa si sono trovati di fronte ad un muro di gomma. Il ministero, tetragono sulle sue posizioni, ha sempre negato ogni nesso di casualità fra l'esposizione all'uranio impoverito e l'insorgere della patologia tumorale. I fronti aperti sono stati diversi, giungendo negli anni anche ad alcune sentenze di condanna nei confronti dell'Amministrazione in sede civile, amministrativa e contabile.Sentenze che sancivano «in termini di inequivoca certezza, il nesso di causalità tra l'esposizione alle polveri di uranio impoverito e la patologia tumorale». E che sanzionavano anche la condotta dei vertici delle Forze Armate per aver omesso di informare i soldati «circa lo specifico fattore di rischio connesso dell'esposizione all'uranio impoverito».Ora la svolta della Cassazione. Secondo i supremi giudici, dunque, il militare che muore per questo tipo di patologie è una vittima del dovere ai sensi della legge citata che estende i benefici riconosciuti alle vittime delle criminalità e del terrorismo.Per le vittime del dovere, si intendono tutti i dipendenti pubblici deceduti o che abbiano subito una invalidità permanente in attività di servizio - fuori o dentro i confini nazionali - per effetto diretto di lesioni riportate «nel contrasto ad ogni tipo di criminalità, nello svolgimento di servizi di ordine pubblico nella vigilanza ad infrastrutture, in operazioni di soccorso, in attività di tutela della pubblica incolumità o a causa di azioni nei loro confronti in contesti di impiego internazionale».