Forse ventisette anni sono pochi perché la verità politica possa diventare anche verità giudiziaria e perché la memoria di Paolo Borsellino possa avere giustizia. I nomi di coloro che, come hanno scritto in sentenza i giudici del processo ter sull’assassinio del magistrato, sono stati a vario titolo protagonisti di “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, sono ormai tutti sul tavolo. Un questore, tre poliziotti, un procuratore capo e tre sostituti. Sono gli stessi pronunciati ripetutamente da Fiammetta Borsellino, la figlia minore del magistrato, che non si dà e non si darà pace fino a che sentenze definitive non metteranno il cappello della giustizia su una verità per troppo tempo ignorata, calpestata.

Non basta che tre poliziotti (il questore La Barbera è deceduto) siano processati a Caltanissetta per calunnia aggravata. Non è sufficiente che due ex sostituti procuratori (anche il procuratore Tinebra è nel frattempo mancato) siano oggi indagati per lo stesso reato. Ci vogliono i processi e le assoluzioni o le condanne, ma soprattutto le ammissioni, qualcuno che oggi dica «ebbene si, abbiamo sbagliato». Magari per giustificare la propria buona fede. Nove processi in Corte d’assise, e poi Corte d’assise d’appello e Cassazione. Tutti incapaci quei giudici? O così distratti e pigri da non avere la forza di nutrire un dubbio?

Oggi sappiamo che la fotografia che ci rimanda la magistratura, e in particolare quella associata, non è molto tranquillizzante: intrighi, complotti e sedute notturne fanno pensare più a una serie di telefilm di Netflix che all’immagine tranquillizzante che dovrebbe avere nei confronti dei cittadini chi ha in mano quella bilancia che divide il mondo tra innocenti e colpevoli. Oggi sappiamo che sia i pubblici ministeri che i giudici (impropriamente solo in Italia chiamati magistrati e costituiti in casta ) sono persone come gli altri, con la proprie debolezze e vanità. Ma noi cittadini li vorremmo “innocenti”, diversi e migliori di noi.

Non sempre è così. I più attenti di noi lo sanno quanto meno dai tempi dell’arresto di Enzo Tortora, che dopo l’ingiustizia del carcere e dopo un’ altrettanto ingiusta condanna di primo grado, ebbe la “fortuna” di finire nelle mani di un giudice di appello abituato a leggere le carte. Una rarità. Infatti ogni avvocato sa che la pigrizia mentale è una delle caratteristiche più diffuse nei tribunali, dove si impolverano faldoni contenenti migliaia di pagine che pochi hanno la voglia di leggere. Ma quel giudice che doveva processare Tortora ebbe pazienza e caparbietà. Così tutti seppero che “qualcuno” aveva consentito che ben 17 delinquenti fossero ospitati nella stessa caserma e diventassero 17 accusatori di Tortora con la stessa falsa versione dei fatti opportunamente concordata tra loro.

Per costruire a tavolino il falso pentito Enzo Scarantino sono bastate un po’ di botte, un po’ di torture in un carcere speciale e la vanagloria di uomini dello Stato di mostrare al mondo che due mesi dopo la strage di via D’Amelio gli assassini erano tutti assicurati alla giustizia. Tutti innocenti, otto persone che hanno scontato vent’anni di galera senza colpa, finché il pentito di rango Gaspare Spatuzza poté quel che i giudici non volevano vedere: il colpevole era lui, insieme ad altri, ma non quelli i cui nomi qualcuno aveva voluto far uscire dalla bocca di Scarantino.

Non è di nessuna soddisfazione poter rinfacciare che alcuni di noi avevano denunciato già allora, nel 1992, che cosa stava succedendo. I nomi e cognomi erano già tutti lì. Perché la mano di Scarantino, un semianalfabeta, scriveva sotto dettatura quel che doveva poi dire al processo. E chi erano gli uomini e le donne che dettavano? Attendiamo le sentenze che ci confermino quel che sappiamo da ventisette anni.