Con la nuova legge non sarebbe successo. Se il “Codice rosso” di Giulia Bongiorno e Alfonso Bonafede fosse stato in vigore all’epoca dei fatti, la Corte d’appello di Messina non avrebbe comunque potuto partorire un mostro giuridico qual è la sentenza che nega la responsabilità civile dei magistrati nella morte di Marianna Manduca. Un rovesciamento della pronuncia che in primo grado aveva condannato la presidenza del Consiglio ( organo che “risponde” per tutti i magistrati italiani) a pagare circa 300mila euro di risarcimento ai 3 figli di Marianna, rimasti orfani e tuttora minorenni. Con le norme ora all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio i pm di Caltagirone non avrebbero potuto interpretare come «non gravi» i comportamenti del marito femminicida, Saverio Nolfo, processato e condannato a 21 anni solo dopo aver ucciso la donna a coltellate, solo dopo che 12 denunce della vittima avevano lasciato indifferente la Procura di Caltagirone. Soprattutto, non avrebbero potuto tralasciare di ricevere la vittima già dopo la prima delle sue 12 inutili denunce. Quegli appelli disperati erano forse apparsi eccessivi ai pm siciliani. Ma con le norme sul “Codice rosso” per i casi di maltrattamenti in famiglia, quegli stessi magistrati avrebbero avuto l’obbligo di ricevere Marianna entro 72 ore dalla prima denuncia. La polizia giudiziaria, a propria volta, avrebbe dovuto trasmettere immediatamente la notizia di reato al magistrato di turno, e ancora, il Tribunale sarebbe stato obbligato a tenere Marianna informata sulle misure cautelari che fossero eventualmente state adottate o meno nei confronti dell’aguzzino, suo marito.

Non sarebbe andata così, se quella legge già ci fosse stata quando Marianna Manduca fu uccisa il 3 ottobre del 2007 a Palagonia, in provincia di Catania. Il motivo è semplice: nel momento in cui i pm di Caltagirone si fossero trovati costretti dalla legge ad ascoltare la donna entro 72 ore, due erano i casi: o l’avrebbero ascoltata sul serio, e probabilmente sarebbero così riusciti a comprendere la pericolosità del marito e a chiedere misure cautelari per impedirgli di nuocere; oppure se avessero violato la legge, se cioè non avessero subito ricevuto Marianna, l’azione civile promossa nei loro confronti dai tre figli orfani sarebbe andata inesorabilmente a segno. La Corte d’appello non avrebbe potuto che condannare i pm per «negligenza inescusabile e grave violazione di legge», come pure aveva fatto il Tribunale in primo grado.

C’è ancora la Cassazione, certo. Gli avvocati Licia D'Amico e Alfredo Galasso, difensori dei 3 ragazzi, sono determinati a fare ricorso. Proveranno a dimostrare l’illogicità della sentenza di secondo grado, che ha revocato il risarcimento civile da 300mila euro dovuto dallo Stato per le colpe dei magistrati. Ma il vero quesito è: l’avvocatura dello Stato resisterà di nuovo? La decisione di ricorrere in appello fu assunta, nel 2017 da Paolo Gentiloni. Adesso a Palazzo Chigi c’è Giuseppe Conte, un avvocato. Nel suo esecutivo siedono i due ministri che hanno proposto la legge sul “Codice rosso”: la titolare della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno e il guardasigilli Alfonso Bonafede. Davvero da un simile Consiglio dei ministri partirà per l’avvocatura dello Stato l’ordine di andare a togliere i soldi ai ragazzini resi orfani dalla furia omicida del padre- aguzzino? Difficile, anche perché sarebbe una sconfessione dell’iniziativa assunta con il disegno di legge, ora gravato peraltro da altre norme che innalzano le pene per i reati di genere e rischiano di rallentare l’approvazione delle parti davvero utili.

Resta però un dato: la legge sulla responsabilità civile dei magistrati continua a fare acqua da tutte le parti. Nonostante le modifiche introdotte dall’allora ministro Andrea Orlando. A giudicare le toghe sono altre toghe. Ne viene fuori quello che l’associazione Dire Donne in rete contro la violenza definisce «il quadro agghiacciante della violenza istituzionale». Tendenza alla «autoassoluzione», come dicono gli avvocati degli orfani di Marianna, tanto più inspiegabile se si pemsa che anche quando la colpa di un magistrato viene riconosciuta, a pagare non è né lui né la presidenza del Consiglio che lo rappresenta in giudizio ma un’assicurazione. Costo annuo della polizza per il singolo pm: intorno ai 400 euro. La vita di Marianna non li valeva?