La polemica tra avvocatura e personale amministrativo della giustizia si riaccende. Ed in mezzo ci finisce il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, con l’Unione delle Camere penali italiane, da un lato, che lamenta una scarsa attenzione di via Arenula nei confronti della categoria forense, trattata come «fastidiosa intrusa che importuna il lavoro degli uffici», e i sindacati, dall’altro, che accusano l’amministrazione della Giustizia di essere «prona alle lamentele degli avvocati», come ha dichiarato al Dubbio Pina Todisco, della Direzione nazionale dell’Usb. Pomo della discordia, ancora una volta, lo smart working, a seguito del protocollo siglato nei giorni scorsi dal Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria e dai sindacati, che di fatto stabilisce l’accesso al lavoro agile per almeno il 50% del personale addetto alle attività giudicate «smartabili». Un accordo che esclude, però, la cosa più semplice e forse anche utile: il deposito a mezzo pec degli atti processuali, quali impugnazioni, memorie, istanze e documenti.

Un intervento a costo zero, escluso, però, da qualsiasi tipo di accordo. Una “dimenticanza” tale da spingere i penalisti a parlare di «disinteresse» e «disattenzione» da parte del governo, interessato, a loro dire, a tutelare più i dipendenti che l’avvocatura. Il presidente e il segretario dell’Ucpi, Gian Domenico Caiazza ed Eriberto Rosso, hanno così scritto a Bonafede, chiedendo un incontro urgente per poter analizzare la questione, considerata «impellente» per l’avvocatura, per arrivare ad un provvedimento normativo che garantisca «finalmente» copertura legale al deposito via pec. «Una norma necessaria già a prescindere dalla emergenza sanitaria, per i benefici che essa comporterebbe», spiegano i penalisti, che rimarcano «l’essenziale funzione di rappresentanza e di concreto esercizio del diritto di difesa dei cittadini» svolta dagli avvocati. «Per il governo la tutela della salute dei protagonisti della vita giudiziaria si concentra doverosamente sui pubblici dipendenti, ma non anche sugli avvocati, patrocinatori dei cittadini utenti della giustizia - si legge nella missiva -, trattati da un lato come fastidiosi intrusi che importunano il lavoro degli uffici, mettendo per di più a rischio - novelli untori - la salute dei padroni di casa, dall’altro esposti a rischi di contagio perché costretti a file ed ore di attesa con relativi assembramenti solo per depositare gli atti». Sono queste, infatti, le difficoltà principali segnalate dai presidenti dei Coa nel descrivere la fase post- lockdown nei tribunali, caratterizzata, soprattutto, da difficoltà di interazione con le cancellerie e conseguenti rallentamenti nel lavoro quotidiano.

Uno «spettacolo indecoroso» risolvibile con decreto legge, finora nemmeno ipotizzato dal governo. E così, a fronte di un accordo con i sindacati «del quale non conosciamo l’esatto contenuto», i penalisti esprimono «disappunto» per il «perdurante disinteresse» nei confronti di una misura i cui aspetti positivi sono di «ovvia evidenza», ma, nonostante ciò, mai presa in considerazione, nemmeno in tempi di pandemia. Il tutto mortificando «la dignità stessa del nostro lavoro», tra divieti, «cancellerie chiuse senza spiegazioni, prenotazioni cervellotiche per l’accesso, file ed ore di attesa con relativi assembramenti, che ci espongono a rischi di contagio evidentemente questi - privi di rilevanza e di allarme sociale».

Sul tema smart working si esprime negativamente anche l’Unione delle Camere civili: «nel settore della giustizia non si può fare - afferma il presidente Antonio de Notaristefani -, il personale di cancelleria continua a non poter accedere da remoto. Certo, corre voce che sarebbero stati acquistati dei computer che potrebbero consentire di farlo: quando? Mistero. Possibile che nessuno di noi debba sapere se la giustizia chiuderà di nuovo, oppure no? Non siamo, noi avvocati, i necessari partecipi dell’esercizio diffuso della giurisdizione, secondo una felice espressione delle Sezioni unite civili? E non sarebbe il caso di evitare un’altra guerra dei poveri tra avvocati, che giustamente vogliono continuare a lavorare e difendere i diritti dei cittadini, e personale amministrativo, che comprensibilmente vuole farlo in condizioni di sicurezza: perché non dire con chiarezza cosa si intende fare, e quando, per contemperare le opposte esigenze?»