Ha testimoniato contro gli assassini di sua sorella Lea, costituendosi parte civile al processo. Ha raccontato quella storia in giro per l’Italia, invitando alla ribellione contro la ‘ ndrangheta. Ma troppo tardi, secondo la Prefettura di Crotone, che ha deciso di negare nuovamente a Marisa Garofalo il risarcimento stabilito dai giudici che hanno condannato all’ergastolo gli assassini di sua sorella: 75mila euro, di cui 50mila a lei e 25mila alla madre ormai morta.

Proprio mentre uno degli assassini - Vito Cosco - scrive in carcere una lettera con la quale si dichiara pentito del suo gesto, pur negando di aver partecipato all’omicidio e ammettendo il solo occultamento del cadavere, Ferdinando Guida, capo dell’ufficio territoriale del Governo a Crotone, ha respinto il ricorso contro la decisione già presa a dicembre del 2017 dal Comitato per il Fondo di rotazione. Con una motivazione paradossale: «Sono risultati elementi pregiudizievoli ostativi nei confronti della signora Garofalo Marisa per la stretta contiguità della famiglia originaria dell’istante alla criminalità organizzata operante in Petilia Policastro, nella quale peraltro l’istante ha continuato a vivere senza essersi dissociata».

Insomma, a macchiare il curriculum di Marisa - la cui fedina penale è totalmente immacolata - sono le parentele sbagliate, dalle quali, secondo la Prefettura, non avrebbe mai realmente preso le distanze. Ma quei legami, di fatto, sono stati spezzati anni prima che sua sorella Lea venisse uccisa: un padre ammazzato nel 1975 e un fratello fatto fuori trent’anni più tardi, entrambi caduti nella guerra tra cosche. L’unica superstite è proprio Marisa, da sempre estranea alla criminalità e per la quale «il vincolo di parentela finisce per essere una mera accidentalità», scriveva nel suo ricorso l’avvocato Roberto D’Ippolito.

Marisa, assieme alla nipote Denise, figlia di Lea, è la testimone chiave del processo che ha permesso di condannare gli assassini della testimone di giustizia, sulla cui testa pendeva una sentenza di morte sin dal 2000. Una sentenza concretizzatasi nove anni dopo, quando Carlo Cosco, ex marito di Lea, assieme al fratello e altri membri del suo gruppo criminale la rapirono a Monza, con l’obiettivo di farsi raccontare cosa aveva detto agli inquirenti, per poi ucciderla e scioglierne i resti nell’acido. Sono state dunque le parole di Marisa, costituitasi parte civile al processo, a far sì che per la sorella Lea arrivasse giustizia. Una testimonianza che, poi, ha continuato a rendere in giro per l’Italia, raccontando il sacrificio di Lea e l’importanza di dire no alla criminalità organizzata.

Uno sforzo che, come ha raccontato ieri il Quotidiano del Sud, a quanto pare non basta. Il Prefetto Guida si è richiamato al «tenore letterale» dell'articolo 15 della legge 122/ 16 e all'articolo 2 quinquìes della legge 186/ 2008: Marisa Garofalo non meriterebbe quel risarcimento in quanto «la condotta dissociativa dal fenomeno mafioso, anche attraverso la costituzione di parte civile, si è manifestata solo successivamente al tragico evento». Sottolineando, però, «l'impatto» che un provvedimento negativo rischierebbe di avere sulla «politica della collaborazione», data anche «la notevole rilevanza mediatica delle vicende riconducibili alla famiglia Garofalo, dopo il brutale assassinio di Lea».

Ma non solo: il Prefetto ha anche fatto riferimento ad una «campagna di stampa ostile e dissacratoria» nei confronti delle istituzioni dopo il primo diniego, «che presumibilmente non mancherebbe anche in questa occasione». Insomma: pensateci bene, altrimenti ci attaccheranno. L’altro elemento valorizzato negativamente dal Prefetto è quella telefonata tra due affiliati alla cosca di Petilia Policastro, Salvatore Comberiati e Vincenzo Carvelli, finita nell'inchiesta “Tabula Rasa” nel 2014. «Comberiati Salvatore precisava a seguito del rifiuto del programma di protezione da parte di Garofalo Lea, Miletta Santina e Garofalo Marisa, rispettivamente madre e sorella di Garofalo Lea, si rivolsero all'esponente della “locale di Petilia Policastro” onde propiziarne il ritorno nel borgo natio, al riparo da eventuali ritorsioni. Le donne però dissimularono lo stato di “pentita” di Garofalo Lea, altrimenti non avrebbero ottenuto alcuna possibilità di protezione del sodalizio petilino. Comberati Salvatore narrava di aver ottenuto, a tal fine, le rassicurazioni dei fratelli Cosco».

Insomma, secondo la Prefettura, «piuttosto che invocare la protezione da parte delle istituzioni, si affidò alla ' ndrangheta». Ma la verità, secondo quanto spiegato dall’avvocato D’Ippolito, è diversa. Lea era allora esasperata per come veniva trattata dallo stesso Stato a cui chiedeva protezione, ma anche per il concreto pericolo che correva nonostante la tutela: l’ex marito era infatti venuto a sapere, tramite un carabiniere infedele, quale fosse la località protetta in cui si rifugiava. Molto allarmata, decise allora di uscire dal programma per tornare a Petilia, chiedendo a Marisa di intercedere per poter tornare in sicurezza a casa. Santina e Marisa si rivolsero dunque ad un esponente della locale di Petilia Policastro per consentirle di rientrare senza ritorsioni. Quella richiesta di “permesso” era dunque il sintomo della condizione di intimidazione rispetto a Carlo Cosco e sodali. Ma secondo i carabinieri, le due donne avrebbero nascosto il suo stato di testimone di giustizia, «altrimenti non avrebbero ottenuto alcuna possibilità di protezione del sodalizio petilino». E quello fu l’unico contatto con la criminalità da parte di Marisa.

«C'è una legge del cuore - scrive l'avvocato D'Ippolito nelle controdeduzioni inviate al Ministero - per cui nessuno può vietare a una sorella di aiutare la propria sorella, che vive la minaccia, l'abbandono, la solitudine». L'impegno attivo di Marisa nella lotta alla criminalità «deve trovare un riconoscimento e un incoraggiamento. Lo Stato - conclude D’Ippolito - deve sostenere anche Marisa se vuole debellare il fenomeno della 'ndrangheta alla radice».