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Corte europea dei diritti umani
La Corte Europea di Strasburgo (CEDU) ha condannato l’Italia per aver violato l’articolo 3 della Convenzione, relativo alla tortura e trattamento disumano o degradante inflitto all’ergastolano Francesco Riela. Il ricorso, presentato dagli avvocati Pina Di Credico e Roberto Ghini, è stato accolto dopo una lunga disputa legale con il governo italiano.
La sentenza Riela contro Italia assume un’importanza vitale poiché ribadisce l’obbligo degli Stati di garantire cure mediche tempestive e adeguate ai detenuti. La Corte ha enfatizzato che i ritardi nella fornitura di cure mediche possono costituire una violazione dell’articolo 3 della convenzione europea, anche se le malattie del detenuto non sono mortali.
La Corte di Strasburgo ha concluso che le autorità italiane non hanno fornito a Francesco Riela cure mediche tempestive e adeguate durante la sua detenzione. In particolare, sono stati registrati ritardi significativi nella fornitura di un apparecchio CPAP e in alcuni esami e trattamenti, come gli esami endoscopici per la poliposi e l’intervento chirurgico su una fistola. I giudici europei hanno ritenuto che tali ritardi abbiano violato l’articolo 3 della Convenzione, causando al detenuto sofferenze fisiche e mentali. In base all’articolo 41, che prevede il risarcimento delle vittime di violazioni della Convenzione, l’Italia è stata condannata a pagare a Riela 8mila euro per danno morale e 3mila euro per costi e spese.
La vicenda ha avuto inizio il 27 aprile 2020, quando, in piena pandemia, gli avvocati Roberto Ghini del Foro di Modena e Pina Di Credico del Foro di Reggio Emilia, hanno presentato una richiesta urgente di adozione di una misura provvisoria (procedura 39) alla Cedu a favore del detenuto che scontava l’ergastolo in un carcere italiano da oltre 22 anni. Nel 2018, il detenuto aveva chiesto il differimento della pena per gravi problemi di salute, ma la richiesta era stata respinta. La Corte di Cassazione, intervenuta nel marzo 2020, aveva annullato il rigetto del Tribunale di Sorveglianza, evidenziando la mancata valutazione delle condizioni fisiche del detenuto.
Nonostante ciò, a quasi due mesi dalla decisione della Corte di Cassazione, senza che fosse fissata un’udienza, il detenuto ha presentato ricorso alla Cedu. La sua lamentela era basata sulla violazione del diritto alla vita, poiché le sue condizioni di salute erano inumane e degradanti, con un ulteriore rischio di contagio da Covid-19 che avrebbe potuto portare alla sua morte a causa delle gravi patologie già presenti. La difesa, consapevole delle precarie condizioni del detenuto, evidenziò la mancanza di cure adeguate e di presidi di protezione individuale nel carcere. Nonostante le richieste dei medici, al detenuto mancava uno strumento salvavita da mesi, e le visite specialistiche richieste non erano state effettuate regolarmente.
Il ricorso presentato alla Corte europea di Strasburgo denunciava la violazione degli articoli 2, 3 e 5 della Convenzione, sottolineando il rischio di morte improvvisa a causa delle gravi condizioni di salute del detenuto. La Cedu, il 29 aprile 2020, sospese l’esame della procedura 39 in attesa di chiarimenti da parte del Governo italiano, da fornire entro il 6 maggio 2020. Iniziò così una “battaglia” legale. Lo Stato italiano ha sollevato obiezioni all’ammissibilità del ricorso, sostenendo che non era stato presentato dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne, poiché al momento del deposito era in corso un procedimento interno. Ha anche affermato che il ricorrente avrebbe dovuto intraprendere un’azione di risarcimento danni, secondo gli articoli 2043 e 2051 del codice civile italiano.
La Corte Europea, tuttavia, ha accolto la tesi difensiva degli avvocati Di Credico e Ghini, stabilendo che un ricorso non può essere dichiarato irricevibile per mancato esaurimento se le vie di ricorso interne sono state esaurite prima che la Corte si pronunci sulla ricevibilità. Importante sottolineare che il procedimento interno si è concluso con la decisione della Corte di Cassazione del 18 ottobre 2021. Riguardo al rimedio previsto dagli articoli 2043 e 2051 del codice civile italiano, la Cedu ha ribadito il principio della mancanza di prova riguardo all’efficacia dei rimedi eccepiti in casi analoghi.
Come spiegano gli avvocati, di notevole importanza sono le argomentazioni dei giudici di Strasburgo su alcune censure che non sono state accolte. In particolare, si riferiscono all’eccepita mancanza di indipendenza del medico legale designato dal Governo a seguito del ricorso per accertare le condizioni psicofisiche del detenuto. La Corte ha chiarito che il semplice fatto che un esperto sia impiegato in un istituto medico pubblico non giustifica automaticamente il timore che possa agire in modo non neutrale o imparziale. Ha richiamato precedenti decisioni, tra cui quelle di Contrada contro Italia, evidenziando che l’impiego di un esperto in un istituto medico pubblico non costituisce di per sé un conflitto di interessi.
Nel caso specifico, la Cedu ha evidenziato che l’esperto medico designato dal governo non aveva alcun legame personale o professionale con l’amministrazione penitenziaria, e il direttore del carcere non era coinvolto nella sua selezione. Inoltre, pur essendo alle dipendenze dell’amministrazione sanitaria regionale, non aveva legami noti con il personale medico operante nel carcere di Napoli Secondigliano, dove era detenuto l’ergastolano ricorrente. Nel contempo, ha esaminato attentamente la questione della mancata fornitura tempestiva di un apparecchio CPAP, essenziale per il suo benessere, e la conseguente incapacità di garantirne la calibrazione e svolgere esami di follow-up.
E lo ha fatto analizzando anche i rapporti dell’esperto designato dal governo, il quale indica ritardi significativi nella fornitura del CPAP e in alcuni esami e trattamenti tra il 2018 e il 2021. È importante sottolineare che il Governo non ha contestato espressamente queste circostanze, riconoscendo di fatto la veridicità delle affermazioni del detenuto. La Corte, considerando la durata dei ritardi e la gravità delle malattie trattate, ha respinto la tesi del Governo che considerava questi ritardi come semplici inconvenienti. Ha sottolineato che, pur non essendo malattie mortali, le patologie del ricorrente erano numerose e di una certa gravità.
Di conseguenza, la Cedu ha concluso che il ricorrente non ha ricevuto cure mediche tempestive e adeguate durante la detenzione, violando così l’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti Dell’Uomo. La sentenza Riela contro Italia rappresenta, quindi, un punto cruciale nel dibattito sulla qualità delle cure fornite ai detenuti e sulla responsabilità dello Stato nel garantire il diritto alla salute anche di coloro che si trovano sotto custodia penitenziaria. E sappiamo quanto sia critica la questione sanitaria delle nostre Patrie Galere.