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Dall’altro, le perplessità espresse soprattutto dai vertici delle Corti d’appello su una gestione a volte irrazionale dei fascicoli nella fase delle indagini. A sollevarle, per esempio, sono stati due importanti magistrati intervenuti due giorni fa al seminario organizzato dal Cnf sull’esame preliminare dei ricorsi in appello: si tratta di Valeria Fazio, procuratore generale di Genova, e del pg della Capitale Giovanni Salvi.
Entrambi parlano di «capi d’imputazione mal formulati che ingolfano, alla fine, anche le Corti d’appello».
Ma lo scontro più acuto rischia di verificarsi sull’avocazione obbligatoria prevista nella riforma penale appena approvata. Un meccanismo che scatta in tutti i casi in cui il pm non eserciti l’azione penale o non richieda l’archiviazione entro tre mesi dalla scadenza dei termini delle indagini preliminari, l’avocazione del procedimento da parte del pg presso la Corte d’Appello.
Nell’intento del Governo - che ha fortemente insistito per questa riforma - la norma dovrebbe garantire una maggiore rapidità del processo, evitando che i fascicoli rimangano “in sonno” negli uffici dei pubblici ministeri.
Circa il 70% delle prescrizioni i dati sono del Ministero della Giustizia - maturano infatti nella fase delle indagini preliminari, dove il pm è dominus assoluto.
La norma sull’avocazione obbligatoria già durante il dibattito parlamentare venne definita «inutile e pericolosa per il funzionamento dell’intero sistema penale» da parte dell’Associazione nazionale magistrati. Il gruppo dell’allora presidente dell’Anm Piercamillo Davigo valutò anche l’ipotesi, come forma estrema di protesta contro la sua approvazione, dell’astensione dalle udienze.
Dopo un acceso confronto, il sindacato delle toghe decise di non scioperare, limitandosi ad un comunicato stampa diramato alla vigilia dell’approvazione definitiva in Parlamento: «Invece di raggiungere l’obiettivo di velocizzare il processo, l’avocazione mette a rischio l’efficacia e la completezza delle indagini e, in generale, l’efficienza e l’equilibrio dell’azione giudiziaria, mortificando al tempo stesso le aspettative di giustizia delle persone offese e le stesse garanzie per gli indagati».
L’altro giorno, però, alcuni magistrati hanno deciso di passare al contrattacco lanciando un appello indirizzato al governo e al parlamento affinché rivedano l’istituto dell’avocazione obbligatoria. Le criticità partono da una constatazione essenzialmente ' numerica' e cioè riguardo il numero dei sostituti procuratori generali che dovrebbero sopperire alle “inerzie” dei colleghi dell’ufficio del pubblico ministero presso il Tribunale.
«E’ impensabile - si legge nell’appello che sta girando sui forum associativi - che le Procure generali presso le Corti d’appello possano farsi carico dell’ingestibile numero di procedimenti pendenti presso gli uffici di primo grado, disponendo l’avocazione di tutti i procedimenti per i quali non vengano rispettati i termini fissati dalla legge».
Per le toghe firmatarie dell’appello, la conseguenza sarà che «i cittadini non vedranno, per effetto di tali disposizioni, alcuna accelerazione dei procedimenti, ma semmai un rallentamento, quale inevitabile conseguenza del giro di carte e di adempimenti burocratici previsti dalla legge».
Oltre a questo “giro di carte” fra uffici, viene evidenziato un altro aspetto che sembrerebbe, di fatto, aprire la strada alla discrezionalità dell’azione penale. La disposizione è pericolosa in quanto «proprio l’impossibilità per le procure generali di avocare tutti i procedimenti nei quali non siano rispettati i termini, consentirà di disporre la avocazione solo di alcuni procedimenti, evidentemente scelti fra quelli più sensibili».
La domanda è d’obbligo: quali fascicoli verranno avocati?
Quello relativo al furto di un’autoradio o quello relativo ad un abuso d’ufficio commesso da parte di un sindaco? Una violenza sessuale o un abuso edilizio? La decisione spetterà al procuratore generale. Sarà lui, dunque, in maniera del tutto insindacabile, che deciderà quali procedimenti andranno avanti e quali saranno destinati, invece, alla prescrizione.
Tale modifica, continuano i magistrati, si inserisce «nel solco di altre riforme che da tempo mirano a rafforzare il ruolo di controllo e di gerarchia degli uffici di procura generale e a disegnare un modello verticistico e gerarchizzato degli uffici del pubblico ministero. Si tratta di un trend politico e culturale, che purtroppo trova sponde anche all’interno della magistratura, molto pericoloso, in quanto determina una concentrazione di potere su pochi uffici di “vertice” con un evidente rischio di riduzione della autonomia e della indipendenza degli uffici e dei magistrati del pubblico ministero», concludono i firmatari dell’appello.
La soluzione, per le toghe, è già prevista nel codice: «Va ribadito che il controllo di legalità sull’azione ( o l’inazione) del pubblico ministero deve essere affidato esclusivamente al giudice e non ad uffici ' superiori' del pubblico ministero».
Oltre che al parlamento ed al governo, l’appello è rivolto anche al Csm e «a tutti i magistrati, in particolare a coloro che svolgono funzioni negli uffici di procura generale, di impegnarsi per una interpretazione restrittiva, e conforme a Costituzione, della nuova disciplina, in particolare fissando criteri obiettivi e predeterminati per le ipotesi di avocazione e tali da escludere la possibilità di una scelta selettiva dei procedimenti da avocare».
Va ricordato, infine, che non è allo stato prevista alcuna sanzione endoprocessuale per il pubblico ministero al quale venga avocato il fascicolo per decorso dei termini. A differenza del giudice, duramente sanzionato dal Csm se ritarda il deposito di una sentenza, per il pubblico ministero che fa prescrivere un procedimento vige il “salvacondotto” disciplinare.
La giustificazioni per i ritardi del pubblico ministero sono diverse. Ad esempio la mole di intercettazioni telefoniche da esaminare prima di formulare il rinvio a giudizio. In questo dibattito tutto interno alle toghe, comunque, si rischia di perdere di vista il tema centrale che è quello della giusta durata del processo. I segnali che giungono vanno tutti nel senso contrario: aumento delle pene e allungamento della prescrizione rischiano, infatti, di rendere i processi eterni.