C’è un nodo da sciogliere che neppure la sentenza disciplinare del Csm rende meno intricato: come deve regolarsi, ora, la magistratura? Dopo la radiazione di Luca Palamara, e le “sospensioni differenziate” dei 5 ex togati riuniti con lui nel dopocena all’Hotel Champagne, di cosa si deve tener conto? Della verità processuale o di quella storica, che non dovrebbe ridursi a quel fatale happening? E se vale la prima delle due risposte, e cioè che i colpevoli di tutto sono Palamara più altri 5, quale accertamento va considerato? Il processo a carico dell’ex presidente Anm, giunto a sentenza definitiva dopo che la Cassazione ha respinto il ricorso e confermato la radiazione? Oppure la pronuncia arrivata ieri sera a Palazzo dei Marescialli, che ha punito Gianluigi Morlini, Antonio Lepre, Luigi Spina a 18 mesi di stop e Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli a una sospensione di 9 mesi? Non sono decisioni del tutto compatibili fra loro, come ricordato dal Dubbio già ieri. Perché la Suprema Corte, a Sezioni unite, ritiene che «Palamara ha agito sulla base di motivazioni assolutamente personali, intendendo colpire specificamente singoli magistrati, volta per volta presi di mira». Quindi per vendetta e essenzialmente al di fuori di un disegno strategico intercorrentizio. Piazza Indipendenza, con la decisione assunta due giorni fa, è convinta invece che i 5 ex componenti dell’organo di autogoverno cooperarono a vario titolo con le iniziative dell’ex leader della magistratura associata. C’è un contrasto evidente. Al momento, neppure è confermato che gli ex consiglieri Csm sospesi impugneranno la condanna: tutti e 5, a quanto risulta, aspetteranno di leggere la sentenza prima di sbilanciarsi. E in teoria, finché non ci sarà un giudicato disciplinare, potrebbe finire congelata pure la valutazione storica Ma è impensabile, per la magistratura italiana, che si resti sospesi a quell’interrogativo: si può davvero archiviare la stagione della “correntocrazia”, come la definisce Giovanni Maria Flick, come una prassi solo un po’ stonata, e Palamara invece come una gravissima e distinta patologia? O si dovrebbe invece riconoscere che le esuberanze del cosiddetto re delle nomine furono in effetti un po’ eccessive, ma rappresentavano solo la punta dell’iceberg? Si deve ammettere o no, insomma, che il sacrificio di Palamara è una scorciatoia fuorviante e pericolosa? E che forse radiare l’epitome di una prassi consolidata è un po’ troppo comodo? Il giorno dopo la magistratura non fa sentire voci ufficiali. Non si nota una folla di vertici delle correnti che tentano di offrire una chiave. E forse è anche comprensibile. D’altra parte uno dei gruppi associativi più importanti, Area, andrà a congresso fra una decina di giorni e avrà modo di discuterne. Ma interpellata dal Dubbio, c’è una voce autorevole che offre una prospettiva persino rovesciata, sull’effetto della sentenza di ieri: Pasquale Grasso, presidente dell’Anm all’epoca dell’incontro all’Hotel Champagne, uscito da Magistratura indipendente per la durezza con cui invitò alle dimissioni i consiglieri del suo gruppo coinvolti, in rotta anche con Area e Unicost al punto da lasciare poi il vertice dell’Associazione, fino alla ricucitura con la corrente moderata. «Con la sentenza della sezione disciplinare non credo affatto si favorisca un riconoscimento storico più approfondito», dice subito Grasso, attualmente giudice presso il Tribunale di Genova. Quindi spiega: «Si prosegue nella traiettoria segnata con le sentenze su Palamara, si puniscono con inedita durezza i protagonisti di quel pur esecrabile singolo evento. Ma si rimuove così ancora una volta un’inevitabile realtà non accettata, e che mai lo sarà: era quella emersa nelle vicende del 2019, la normalità dei rapporti che intercorrevano al Csm». Grasso è stato al vertice dell’Associazione magistrati ma ha solo sfiorato l’attuale consiliatura, e comunque non ha mai fatto parte dell’organo di autogoverno. «Ciononostante, secondo la vox dei, c’è sempre stata una chiara consapevolezza, nelle mailing list di noi magistrati: sulle nomine si tendeva in generale ad accordi e complicazioni analoghi a quelli venuti fuori per la Procura di Roma. Certo, all’Hotel Champagne», nota Grasso, «si è arrivati forse allo zenit, per la presenza di un soggetto indagato dall’ufficio sulla cui dirigenza si discuteva nell’incontro (Luca Lotti, deputato allora del Pd, che era al dopocena insieme con Cosimo Ferri, pure lui in quel momento parlamentare dem, ndr). Ma non è che quella specificità segni anche un’estraneità dell’episodio rispetto al contesto generale». Insomma, rischiamo semplicemente di avere non uno, cioè Palamara, ma 6 capri espiatori, con la condanna degli ex togati arrivata ieri sera? «È esattamente così. Eppure non vedo come si possa ridurre la questione delle nomine e dei rapporti fra le correnti a quell’episodio. Oltretutto», aggiunge Grasso, tuttora fra i leader della magistratura moderata, «a me sembra che non vi sia stata neppure un’efficace gradazione delle sanzioni rispetto alle condotte dei singoli: le condanne sono tutte fortissime, senza precedenti. Soddisfano le esigenze di sangue, non di conoscenza reale di quanto avvenuto nel Csm per anni». E rispetto all’impressione che si ricava dalla lettura della sentenza con cui la Cassazione ha confermato la radiazione di Palamara, quella di un uomo solo al comando dei misfatti, Grasso ha un’ultima chiosa: «Vorrei sia ripetuto tre volte: non ho letto, non ho voluto leggere la sentenza delle Sezioni unite, ma se davvero ne risultasse un artefice unico degli accordi sulle nomine, si tratterebbe di una prospettazione poco condivisibile. Palamara non può aver inventato e alimentato il sistema da solo. È una lettura molto consolatoria, quella della singola mela marcia. O delle 5 o 6 che, una volta condannate, dovrebbero soddisfare l’esigenza di verità e soprattutto di purezza del sistema».