Intanto, teniamo fuori gli avvocati. Sembra lo slogan a cui si ispirano le correnti dell'Anm, soprattutto quelle "di destra", in vista della "trattativa" con il governo sulla riforma penale. Proprio mentre il sindacato dei giudici fissava per il 24 ottobre l'incontro con Renzi e Orlando, è partito l'attacco delle toghe su un tema in apparenza laterale: il diritto di voto da riconoscere all'ordine forense nei Consigli giudiziari. Il ministro della Giustizia è favorevole alla svolta. A osteggiarla è invece la magistratura associata. E in particolare proprio il gruppo che fa capo al presidente dell'Anm Davigo. Da Autonomia & indipendenza arriva infatti un comunicato molto duro sull'ipotesi che l'avvocatura contribuisca a produrre le valutazioni di professionalità sui giudici.Già da diversi mesi Orlando ha pronto un provvedimento che dia più peso ai difensori negli organismi distrettuali. In modo da incidere tra l'altro sulle "pagelle" per i magistrati che aspirano a essere indicati dal Csm per gli incarichi direttivi. Il tema si è imposto un mese fa, in occasione del convegno promosso dal Consiglio nazionale forense proprio sul ruolo degli avvocati nei Consigli giudiziari. Intervenuto all'incontro, il guardasigilli ha detto chiaramente di essere non solo favorevole a un'ipotesi avanzata da Giovanni Canzio, che prevede il diritto di voto almeno per il presidente del Consiglio dell'Ordine, ma di non escludere che la "presenza attiva" possa essere riconosciuta a più di un avvocato in ciascuna assemblea. Sabato scorso il ministro della Giustizia ha ribadito al Congresso forense l'intenzione di intervenire sulla materia. È stato l'innesco che ha portato alla dirompente reazione della magistratura. In contemporanea le due correnti della "destra giudiziaria", con altrettanti comunicati stampa, hanno chiesto all'Anm di dare «una risposta unitaria» fino a ipotizzare «iniziative di protesta». Presa a pochi giorni dall'incontro sulla riforma del processo, l'iniziativa parallela di "Autonomia & indipendenza" e "Magistratura indipendente" appare un po' strumentale. Pare studiata per alzare la posta al tavolo del confronto sindacale. Il 24 ottobre Davigo vedrà Renzi e Orlando per discutere solo di una cosa: la posizione dell'Anm sul ddl penale, bloccato in Senato proprio per le contestazioni dei magistrati. Alle toghe preme che la riforma del processo sia corretta in un punto: l'articolo 18. Che messa così pare una faccenda da conflitto sindacale classico. All'articolo 18 del disegno di legge in questione però non si parla di licenziamenti. Piuttosto dell'obbligo per i pm di esercitare l'azione penale entro tre mesi dalla chiusura delle indagini, pena il rischio di procedimenti disciplinari e di avocazione del fascicolo da parte del procuratore generale.IL VERO CONFLITTO«È una previsione irragionevole, spiegano proprio dalla corrente di Davigo, «perché spesso le indagini si accumulano e le Procure sono costrette a operare delle scelte di priorità: si finisce cioè per lasciar perdere le inchieste meno rilevanti e con minor possibilità di arrivare a sentenza prima della prescrizione, e ci si concentra sulle più significative. I fascicoli lasciati inerti sono quasi sempre», viene chiarito, «quelli per i quali si fa l'iscrizione al registro riservato, senza trasmettere informazioni di garanzia all'indagato che dunque neppure sa dell'indagine. che senso ha preoccuparsi di esercitare dunque tempestivamente l'azione penale? ».Il pomo della discordia vero è in questa "costrizione". O meglio, come viene fatto notare ancora da un magistrato che ha avuto modo di discutere della questione con Davigo, «il problema è nel rischio disciplinare e nella paralisi che ne seguirebbe: perché tutti i pm finirebbero per preoccuparsi esclusivamente di adempiere all'obbligo di chiedere entro tre mesi il rinvio a giudizio o l'archiviazione per tutti i fascicoli, in modo da non incorrere in azioni disciplinari. Ma così l'attività degli uffici si sclerotizzerebbe in un'ossessione burocratica, e le indagini davvero meritevoli di essere condotte a processo verrebbero drammaticamente trascurate». È una linea sindacale pienamente recepita da Davigo, e che infatti il presidente dell'Anm avrebbe già anticipato ai suoi interlocutori, Renzi e Orlando appunto. Ma visto che né il premier né il guardasigilli hanno lasciato intravedere una soppressione del contestato articolo 18, la strategia della magistratura associata si è orientata su una più ampia articolazione del conflitto. Ed ecco che è partita l'offensiva sul tema dei Consigli giudiziari.NO ALLE INTRUSIONIDopodiché è chiaro che giudici e pm sono davvero contrariati dall'idea di vedersi sottoposti al giudizio vincolante degli avvocati. Il no a concedere loro il diritto di voto nei Consigli giudiziari è davvero sentito. Almeno dalle due correnti "di destra", tradizionalmente più orientate a una interpretazione "sindacale" dell'associazionismo togato. Proprio il comunicato della corrente di Davigo, Autonomia & indipendenza, è particolarmente duro nel prefigurare il rischio di un «condizionamento anche soltanto potenziale». Se gli avvocati possono esprimere un voto sull'efficienza di un magistrato, quest'ultimo «vedrebbe condizionata la sua carriera anche dal parere dei rappresentanti di quelle parti a cui quotidianamente distribuisce torto e ragione». In pratica giudici e pm sarebbero meno propensi ha valutare i fatti in modo imparziale e più tentati dall'assecondare le aspettative di quei difensori che potrebbero influire sulla valutazione della loro professionalità. Addirittura, si legge nella nota di Autonomia & indipendenza, si fa riferimento ai «piccoli Tribunali, a realtà locali con forte infiltrazione criminale, a pur possibili patologie di rapporti anche diretti tra difensori in importanti procedimenti e gli avvocati presenti nei Consigli giudiziari». Tradotto, tramite i difensori potrebbe essere addirittura la mafia, a incidere sulla carriera delle toghe. No deciso anche a «soluzioni graduate e intermedie» come quella proposta da Canzio. E obiezioni persino sul protocollo d'intesa stipulato il 13 luglio dal Csm con il Consiglio nazionale forense, definito «preoccupante», giacché impegna le parti a «valorizzare il ruolo dell'avvocatura nell'ambito delle funzioni attribuite ai Consigli giudiziari» e «a valutare posizioni comuni per le modifiche dell'attuale disciplina della loro partecipazione». Muro invalicabile insomma davanti all'ipotesi prospettata dal guardasigilli. La magistratura ritiene di doversi giudicare da sola. Punto. E a Renzi e Orlando magari farà presente che essa sola può dire l'ultima parola sulla riforma del processo penale.